di MICHELE MEZZA

Elio Germano e una pattuglia di attori della nuova generazione (“Artisti 7607”) sfida le piattaforme sul tema dell’equo compenso.

Una questione che accomuna gli interpreti dell’audiovisivo ai giornalisti.

La gamma delle forme di retribuzione in entrambi i casi spazia dalle remunerazioni più rilevanti, dei primi della classe, a salari che rasentano, e in molti casi, in entrambe le categorie, sfondano all’ingiù i limiti dell’indigenza.

Ma sia per i grandi ingaggi che per le paghe da sopravvivenza, attori e giornalisti si trovano esclusi da ogni modalità di controllo della valorizzazione della propria opera.

nomi dello spettacolo

Il nodo vero, che i nomi dello spettacolo hanno inquadrato mentre i giornalisti continuano ad esserne distanti, riguarda la condivisione dei dati.

Siamo infatti in una tipica situazione, come spiega Mauro Magatti nel suo saggio “Oltre l’Infinito”, in cui -vista la capacità delle piattaforme di tracciare ogni gesto o intenzione dei suoi utenti- sia per l’audiovisivo sia per l’informazione, la misurabilità di un valore è l’unico elemento che dà certezza e reciprocità di riconoscimento.

Stiamo parlando di quel petrolio moderno che sono i dati, quel flusso ininterrotto di informazioni che ogni nostra attività, digitalmente mediata e formattata, produce come reale forma di remunerazione per le piattaforme. 

scardinare il monopolio

Dunque come separare un equo compenso da una rivendicazione, che avanzano le società di autori ed attori che hanno denunciato i grandi marchi dello streaming, come appunto Netflix, di condivisione dei dati che questi marchi tesaurizzano? 

In discussione c’è l’esatta interpretazione e applicazione del decreto legislativo 35/2017 che, oltre a scardinare il monopolio della Siae nel campo della gestione e controllo dei diritti di autore, costringe tutti i proprietari delle piattaforme a rendere trasparenti e condivisi i dati sulla visione e riproduzione degli audiovisivi trasmessi.

Si tratta non solo di informazioni quantitative – quanti contatti e in quali occasioni – ma anche e soprattutto qualitativa, quali scene sono state apprezzate, quali passaggi abbandonati o rivisti, che permettono ai detentori di questi dati di ottimizzare al meglio la gestione dei palinsesti, ma anche la produzione di future opere.

beffarda truffa

La stessa situazione si crea nel mondo del giornalismo: Google, Facebook, Twitter, dispongono di un tesoro incalcolabile per ricostruire la relazione fra ogni singolo utente e le diverse tipologie di notizie. Non a caso l’obiettivo dei service provider è sempre stato quello di appropriarsi di questi dati, interrompendo la relazione diretta fra testate e utenti. Instant Articles, una delle prime operazioni di collaborazione fra giornali e Facebook si rivelò da questo punto di vista una devastante e beffarda truffa ai danni del giornalismo. Le testate che aderirono, alcune come il gruppo Repubblica, con un entusiasmo davvero inspiegabile, rapidamente scoprirono l’inganno e interruppero questo accordo. Ma il meccanismo si ripete e riproduce anche alla base dell’accordo sul riconoscimento agli editori di un feed per le citazioni. Google, nelle poche occasioni in cui applica l’intesa e paga, con un piatto di lenticchie, gli editori, si guarda bene di condividere i dati di frequenza e di uso dei contenuti da parte degli utenti.

Ora, grazie alla vertenza degli attori, si potrebbe riaprire tutta la questione, collegando equo compenso e giusto riconoscimento del diritti di autore per le citazioni digitali, ponendo con forza da parte dei giornalisti il nodo dell’accesso ai dati. In questa maniera, da una parte avremmo un elemento sicuro della valorizzazione sul mercato di ogni singolo pezzo di ogni giornalista e, dall’altra, i professionisti dell’informazione avrebbero una base significativa per costruire progetti e percorsi professionali autonomi e innovativi, con una relazione diretta con i propri utenti.

trasparenza e condivisione

In questo capitolo però bisogna introdurre il nuovo tema dell’intelligenza artificiale, ossia di come i dispositivi tipo ChatGPT si nutrano dei contenuti di autori identificati, come i giornalisti per le proprie elaborazioni. Un tema che riveste un’importanza per tutti gli utenti del sistema artificiale. Infatti l’Agcom, a livello nazionale ed europeo, dovrebbe, su richiesta dei giornalisti stessi sollecitare una trasparenza delle fonti. In sostanza ChatGPT dovrebbe comunicare, esattamente come fa la Chat di Bing, del motore di ricerca di Microsoft, quali fonti vengono campionate ed interpellate per rispondere ai prompt degli utenti. 

L’interesse dei giornalisti tornerebbe così a coincidere con quello degli utenti, rendendo le piattaforme digitali più trasparenti e condivisibili. 

 

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