Vittorio Di Trapani, che è stato segretario Usigrai, il sindacato dei giornalisti Rai, dal 2012 al 2021, ha raccontato su Facebook una storia agghiacciante. Quattordici ore al pronto soccorso di un ospedale romano, prima di essere visitato e repertato. Una storia che accade, nelle stesse identiche modalità, ogni giorno a centinaia di romani (e di cittadini di altre città italiane). E che ci interroga sui menu dei mezzi di informazione. E’ giusto dedicare pagine e pagine alla campagna elettorale, agli schieramenti e agli scostamenti delle forze politiche italiane, mentre la società civile -tutti noi- affronta ogni giorno i servizi pubblici che non funzionano? E’ giusto stralodare la Regione Lazio per la performance sui vaccini, se è la stessa Regione Lazio che abbandona i pronto soccorso in queste condizioni?

Dovrebbero i giornali, le tv, le radio e i social network occuparsi ogni giorno dei pronto soccorso cittadini finché qualcosa non migliori sia pure un poco? La risposta è sì.

nE’ pranzo ne’ cena

A beneficio di tutti i mezzi di informazione, ecco il racconto di Di Trapani:

“Stamattina ero in auto. Vengo tamponato da un’auto che è dietro di me. Sento la ‘schicchera’ al collo. Così, finisco una commissione, e vado al Pronto Soccorso. Il più vicino è quello dell’Ospedale Sant’Andrea (Roma): scelgo quello. Ingresso e accettazione (triage) ore 13.50. Poi inizia una interminabile attesa. Folle. Assurda. Ingiusta. Ore 22.40 (quasi 9 ore dopo!) finalmente mi chiamano. Un medico mi visita. 3 minuti. Serve una lastra. Ricomincia l’attesa. A mezzanotte in punto (1 ora e 20 minuti dopo) arriva la chiamata per fare l’rx. Rx fatta a 00.20. Riprende l’attesa. All’1.20 (un’ora dopo) il medico mi chiama. Spiegazione. Referto. Esco dal Pronto Soccorso all’1.30: quasi 14 ore dopo esserci entrato”.

Dice Di Trapani che – per fortuna – lui era solo un codice verde (in una scala da 1 a 5, è il quarto, il penultimo): “Quindi è giusto e ovvio che qualunque urgenza abbia la priorità rispetto a me. E non è certo colpa dei medici che – ne sono sicuro – dietro a quella porta lavoravano al meglio possibile. Encomiabile la pazienza degli infermieri al triage. Sempre disponibili ad ascoltare e rispondere con garbo. Ma non credo sia giusto che loro come lavoratori e noi come assistiti veniamo messi in queste situazioni. Io sono andato al Pronto   Soccorso per precauzione. E anche per avere la tranquillità di andare poi al lavoro sereno di non essermi fatto nulla. E invece ho perso una giornata di lavoro in una sala d’attesa. Non l’ho persa per ‘infortunio’. L’ho persa perché sono stato costretto ad attendere oltre 13 ore. Un numero di ore che ha attraversato sia ora di pranzo che di cena. E ovviamente non era opportuno allontanarsi perché non sapevo quando mi avrebbero chiamato. Quindi al massimo una scappata al bar a prendere un panino. E poi dalle 19 bar chiuso e al massimo distributori automatici”. 

tutto questo dolore

Dice Di Trapani che lui è un lavoratore dipendente, con garanzie del posto di lavoro, ha 46 anni ed è in buona salute. E dispone anche di una buona dose di pazienza: “E allora penso: un lavoratore che non ha le mie tutele? Un lavoratore che se non lavora non guadagna? Una persona anziana? (E con me nella lunga attesa ce n’erano!). Una persona con una salute meno buona che non consiglia 14 ore su una scomoda sedia di ferro e senza un pasto decente?”.

Conclusione: “No, non è giusto. Per noi assistiti. E per il personale ospedaliero, del quale ci ricordiamo solo quando dobbiamo fare pomposi quanto retorici omaggi per lo spirito di abnegazione mostrato in prima linea contro una pandemia. Non è giusto. Il pubblico è un bene comune. È un dovere impedire che accadano cose del genere. Ma un’altra cosa ho voglia di dire: quanto dolore ho visto! Quanto dolore! Perché tutto questo dolore?!?!? Perché?!?!?!?”.

I mezzi di informazione servono anche ad evitare tutto questo questo dolore.

(nella foto, il Pronto Soccorso dell’Ospedale Sant’Andrea, a Roma)

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