di VITTORIO ROIDI

ll volto, l’immagine, contano molto al giorno d’oggi. Anche quelli del giornalista? Nei giorni scorsi Professione Reporter ha rilevato che su due quotidiani (la Verità e la Stampa) alcuni articoli sono apparsi in prima pagina non solo firmati, ma accompagnati dai volti degli autori. Un segnale poco significativo? Non è una novità. Da tempo lo fanno i settimanali, ma i volti sono quelli degli opinionisti, titolari spesso di una rubrica. Pubblicare le foto anche dei cronisti? E perché? Vale la pena di parlarne o è un particolare insignificante?

“Metterci la faccia” è un modo per responsabilizzare l’operazione di vendita. Lo fanno i commercianti, i piccoli imprenditori, che mostrano la faccia per pubblicizzare i propri prodotti: biscotti, mozzarelle, capi di abbigliamento. Aiuta l’operazione di mercato. Chi produce decide di esporsi in prima persona, non resta nascosto dietro un marchio o uno spot. Anche i giornalisti hanno bisogno di attirare il lettore e legarlo al giornale mostrando il proprio volto? Devono aiutare a vendere il giornale? Ci sono direttori che passano ore e ore davanti all’obbiettivo di Skype per propagandare una testata. Direttori in vetrina e con loro editorialisti, opinionisti e ora anche cronisti. Aiuta le casse dell’azienda, che c’è di male? Siamo su una barca che ha bisogno di rematori capaci di conquistare lettori. In qualsiasi modo.

Ma il giornale è un’impresa commerciale che deve produrre verità, le notizie non sono una merce come le altre. Dunque, la questione è più complessa e si pone fra quelle che possono essere valutate con criteri diversi se non opposti. Il protagonismo contraddice anzitutto la regola antica che veniva raccomandata ai giovani apprendisti: non conta chi siete e cosa pensate, dimenticate le vostre idee e i vostri interessi, non dovete essere protagonisti, ma servitori del lettore. Al cronista televisivo si diceva: tu non devi comparire nelle immagini girate, tu non conti, la macchina da presa non ti deve vedere. Roba vecchia, ormai superata in un’epoca in cui le immagini dominano la vita e la comunicazione? Un giornalista è un lavoratore come gli altri, non fa eccezione e poi un po’ di popolarità aiuta a farsi un nome, nel caso si debba cambiare scrivania. E’ una prima risposta.

In questi mesi anche in tv le facce dei giornalisti sono aumentate. Monica Maggioni, fra le prime decisioni che ha preso dopo essere diventata direttore del Tg1, ha spedito in video tre o quattro colleghi dai volti a noi sconosciuti, a raccontare le notizie sul Covid o sulla politica internazionale, seduti al tavolone dell’edizione delle 20, al fianco di Giorgino, di Zucchini, della D’Aquino. Non credo che l’abbia fatto per soddisfare il loro ego – anche se la vanità è molla costante in tutti i giornalisti, in una certa misura scontata – ma piuttosto per portarli allo scoperto davanti a milioni di telespettatori. In questo caso metterci la faccia significa più partecipazione, più responsabilità. Lo spettatore probabilmente apprezza. E’ un’altra possibile risposta.

Poi ci sono quei colleghi che dalle redazioni si trasferiscono nelle Reti. Guidano trasmissioni in cui il giornalismo è sempre più mischiato con l’intrattenimento: riprendono notizie spesso vecchie, ascoltano esperti e opinionisti spesso presunti, si espongono per ore, con tecniche che lo spettatore non distingue: presentatore, conduttore, Pippo Baudo, Bruno Vespa, Salvo Sottile, che mestiere fa questo signore? Esempio di mescolanza che talvolta dovrebbe far riflettere i dirigenti, soprattutto della Rai e dell’Ordine professionale. Forme di giornalismo personalizzato che portano ad esibirsi a 360 gradi, nonché a mostrare doti e capacità che si avvicinano (talvolta pericolosamente) a quella degli attori e dei personaggi del palcoscenico. Anche di questo va preso atto.

Una volta, Enrico Mentana, direttore del Tg 5 rimproverò aspramente una collega che si era presentata in video con i capelli tinti di blu. Era chiaro che non si poteva accettare. Il rossetto alle labbra, una camicetta scollata, una pettinatura alla moda: qual è il limite? Dove ci si deve fermare? Qui, è facile comprendere che il problema è un altro: la serietà e la credibilità che lo spettatore ricava non solo dal contenuto delle cose che il giornalista racconta, ma anche dal suo aspetto e dal modo come le notizie le porge.  Ecco che la persona diventa protagonista. Servono buongusto, sobrietà. Lo spettatore non può essere attratto e sviato da particolari che nulla hanno a che fare con il messaggio che deve ricevere e comprendere.

Altri esempi si potrebbero portare. Invece, conviene ricordare che i giornalisti dell’Essenziale, settimanale di Internazionale, hanno deciso di pubblicare i propri articoli tutti senza firma. Per “anteporre la voce collettiva a quelle individuali, perché una redazione non è la somma di singoli giornalisti – hanno spiegato – ma anche un collettivo che, proprio in quanto tale, ha una responsabilità collegiale, oltre che una forza maggiore. Quello che è scritto negli articoli è più importante di chi lo ha scritto”. 

Per chiudere, quanto all’abbigliamento, si può segnalare il caso di Stefania Battistini, cronista e inviata Rai, che da qualche giorno vediamo trasmettere dalle strade tristi del Donbass. Ieri indossava un giubbotto antiproiettile militare e un elmetto verde con la scritta “Press”. Un avviso per chi sparava e per chi la guardava in tv. Purtroppo.

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