di ALBERTO FERRIGOLO

“Miei cari colleghi, fate attenzione. La giustizia è fallibile e per difendersi in giudizio servono soldi e un giornalista precario, disoccupato o pensionato può non averli”. Lo scrive Fabio Di Chio, giornalista de Il Tempo, ora in pensione, coinvolto nel pignoramento dei propri beni perché il suo giornale “non ha onorato il patto di manleva con il quale mi aveva garantito che avrebbe pagato eventuali risarcimenti se fossi stato condannato per diffamazione”, denuncia l’interessato. La manleva, come noto, è l’obbligo assunto verso terzi di sollevarli dalle conseguenze patrimoniali negative di un evento come lo è, in questo caso, l’onere di una querela. Compito che tradizionalmente spetta all’editore.

L’articolo querelato trattava del fatto che i carabinieri avevano sequestrato una scultura bronzea messa in vendita dal figlio di Vanna Marchi, nota venditrice di prodotti in tv.

causa civile

La vicenda risale a dieci anni fa, ma Di Chio però chiarisce: “Non ho mai ricevuto né saputo che in redazione era arrivata una lettera che minacciava querela e richiesta di danni se non fosse stato eliminato un mio articolo dal sito internet della testata”. La causa civile per danni però nel frattempo viene intentata e fa il suo corso. L’atto di citazione per circa 20mila euro arriva in redazione ma non viene consegnato al diretto interessato. “Quando ho saputo che ero chiamato in causa, ho pensato che comunque non avrei pagato personalmente eventuali risarcimenti decisi dal giudice, che li avrebbe pagati l’editore, perché da dipendente avevo la manleva firmata dall’amministratore delegato – oggi ex – del quotidiano e sottoscritta dalla Fieg che dava il bollino di qualità al patto”. “Ma mi sbagliavo”, riflette oggi Di Chio, perché “se prima della sentenza sei andato in pensione, la manleva non vale più. Ma io questo non lo sapevo”.

la prassi della manleva

Condannato in primo grado, il Tribunale che ha emesso la sentenza a Di Chio ha subito congelato conto corrente e bancomat respingendo allo stesso tempo il suo ricorso contro la sentenza. Così Fabio Di Chio è rimasto “con appena 20 euro in tasca” passando, come dice lui stesso, “dalla sconfitta alla disfatta”. E a nulla è valso che qualche tempo dopo ci sia stato un parallelo giudizio della magistratura a suo favore: l’assoluzione dal reato di diffamazione intentato per lo stesso articolo e dalla medesima persona che aveva richiesto la rimozione dell’articolo dal sito internet del giornale. Dichiara ancora Di Chio: “La manleva non mi ha garantito. La controfirma della Fieg è stata solo inchiostro: i giudici non l’hanno considerata garante. La società editrice non mi ha lanciato alcuna ciambella di salvataggio” ma, aggiunge, “voglio mettere in guardia anche i giornalisti dipendenti. Pensate che la proprietà della testata tuteli sempre i suoi redattori? Non è vero”. Un tempo era prassi, editori benestanti o meno che fossero, ma oggi non più. “Oggi la regola è che l’articolista deve sbrigarsela da solo e chi rompe paga”, conclude amaramente Di Chio. Oltre ai danni, la beffa.

A tutela del giornalista de Il tempo si è però messa a disposizione la macchina e la squadra di Ossigeno per l’informazione che ha garantito parzialmente le spese legali e che si muove in difesa dei giornalisti vittime di ingiustizie. “Questa vicenda – commenta Alberto Spampinato, che di Ossigeno è il fondatore e il direttore – ripropone l’esigenza di regolare in modo chiaro con il codice civile la responsabilità di chi nella funzione di editore pubblica dei contenuti di autori che poi subiscono processi e condanne per risarcimento di anni. Su questo punto c’è un’evidente lacuna legislativa, che è stata messa in luce già danni dalla vicenda del fallimento dell’editore dell’Unità”, che dissoltosi nel nulla si è scaricato di ogni responsabilità lasciando l’intera redazione e la direttrice responsabile Concita De Gregorio nei guai. Un malcostume senza gaudio. 

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