La giudice di Londra Vanessa Baraitser ha scritto il 4 gennaio un nuovo capitolo della storia del giornalismo. Ha negato l’estradizione negli Stati Uniti di Julian Assange, protagonista del caso Wikileaks (sarebbe “a rischio suicidio se sottoposto alle modalità di detenzione che riceverebbe in America”). Allo stesso tempo ha stabilito che quello che fa Assange “non è giornalismo”. Assange “è andato oltre, perché ha cercato di ottenere informazioni attraverso l’hackeraggio” organizzato dalle sue fonti, in particolare l’ex soldato americano Bradley, oggi Chelsea, Manning. “La libertà di espressione -ha scritto la giudice Baraitser- non è pubblicazione senza regole”. Una frase degna di trovare posto in ogni codice deontologico della professione giornalistica.

Il metodo di Assange consisteva nella pubblicazione o fornitura ai mezzi di informazione di documenti. Nel 2010 settantamila mila documenti sulle operazioni della coalizione internazionale in Afghanistan e poi 400mila carte riservate sull’Iraq che contenevano fra l’altro prove delle violenze delle truppe Usa sui civili.

Il giornalismo (ritine anche la giudice Baraitser) non è soltanto pubblicazione di carte, ma anche lavoro di selezione, interpretazione, decodificazione, contestualizzazione delle carte stesse.

 

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