di FABRIZIO PALADINI

Di Paolo Rossi – come di Diego Maradona – abbiamo letto, leggiamo e leggeremo di tutto e di più. E’ stato simbolo di un bellissimo gioco e di un tempo andato ma non troppo, ed è giusto che venga omaggiato.
Non parlerò quindi del Paolo Rossi goleador, di quella finale al Bernabeu che ho avuto la fortuna di vedere dal vivo, del mio viaggio in Brasile cinque anni dopo quel giorno, dove ancora tutti i brasiliani mi dicevano: “Italiano? Paolo Rossi!”, con la R arrotata, che li aveva feriti e li aveva lasciati ancora sanguinanti.
Vorrei parlare invece dell’uomo, quasi 40 anni dopo quel 1982. Del suo essere gentile e riservato, disponibile e concreto. Uno che poteva “tirarsela”, ma che ha sempre scelto la semplicità e -diremmo oggi – l’”understatement”. Lo incontrai la prima volta negli studi di Sky Sport nel 2001, dove lui faceva il commentatore. Gli proposi di scrivere editoriali di sport per Metro, il primo quotidiano gratuito, che all’epoca dirigevo. Pensavo che sarebbe stato difficile perché Metro, seppur molto diffuso, non era un giornale “fighetto”, era fuori dal circuito autoreferenziale della stampa d’opinione e poi, diciamo la verità, non avevo grandi cifre da offrirgli. Lui mi disse che sapeva benissimo cos’era Metro, anche se non andava spesso sui mezzi pubblici, che ne conosceva il network mondiale (all’epoca avevamo edizioni in 23 paesi del mondo) e che gli piaceva “questo vostro essere pirati dell’informazione”.

Sul palco con De gregori

Al momento di parlare di soldi mi disse che avrebbe fatto volentieri gli articoli e che lo avrebbe fatto a titolo gratuito. Pochi anni dopo fece addirittura il direttore per un giorno di Metro, chiamato da Giampaolo Roidi, il mio successore, e gli editori svedesi lo vollero come editorialista di tutto il network mondiale.
L’ultima volta che l’ho rivisto fu l’anno scorso ad Abu Dhabi, a un evento presso la New York University, con l’Associazione Diplomatici, una scuola di formazione per ragazzi di tutto il mondo che vogliono specializzarsi nelle carriere internazionali. Paolo Rossi era stato portato lì da Marco Tardelli che di Diplomatici è il goodwill ambassador e insieme a noi c’era – chiamato dal presidente dell’associazione Claudio Corbino – anche Francesco De Gregori. La sera del concerto, De Gregori chiamò sul palco Tardelli e Rossi e insieme a loro cantò “La storia siamo noi”. Con leggerezza, passione e qualche stonatura Rossi e Tardelli infiammarono il teatro.
Passammo giorni allegri e felici. Lui non sembrava malato, anzi, mi sembrò in gran forma con sua moglie Federica e l’ultimo giorno mi diede una intervista che pubblicai sulla Gazzetta dello Sport.
Più delle risposte sul calcio mi va di ripubblicare le cose che Pabito mi disse su tolleranza e razzismo.

stadi e ignoranza

Perché insegnare tolleranza?
“Perché è necessario. I tempi lo richiedono. Vedere questi ragazzi portati qui da Associazione Diplomatici è un po’ vedere il mondo come lo sogniamo. Un mondo unico, dove si può entrare, senza barriere. Il loro esempio è bellissimo: sono diversi ma uniti, vivono insieme, insieme studiano e lottano per cambiare il mondo. E io sono convinto che ci riusciranno”.
Lo studio è importante?
“Alla base di molto del male che ci circonda c’è l’ignoranza. Se vuoi competere, se vuoi crescere, se vuoi realizzare i tuoi sogni, devi studiare. Se studi capisci di più gli altri”.
C’è razzismo negli stadi?
“Sì ed è una vergogna. Il mondo è uno e uno soltanto. C’è bisogno di dare un segnale perché se succedono questi episodi vuol dire che non abbiamo una cultura sportiva e allora dobbiamo insegnare ai ragazzi questi valori. La Federazione deve fare la sua parte, i club la loro, i giocatori in campo la loro”.
Cosa vorrebbe che succedesse ai prossimi fischi a Balotelli?
Vorrei che tutto lo stadio si alzasse in piedi ed applaudisse il giocatore insultato dai pochi. Vorrei che i giocatori di tutte e due le squadre facessero lo stesso. Pensi che immagine daremmo a quei pochi deficienti razzisti per cui ancora il colore della pelle fa la differenza. Pensi a come si sentirebbero loro, una minoranza fischiata da una maggioranza e perfino da quegli stessi calciatori in nome dei quali dichiarano passione e tifo sfrenato”.

Non sapeva, Pablito, che pochi giorni prima di morire quello che lui aveva auspicato, era successo davvero quando i giocatori di PSG e Basaksehir avrebbero abbandonato il campo per rispondere a un gesto razzista addirittura di un arbitro che chiamava “negro” il viceallenatore della squadra di Istanbul.
Paolo era un uomo equilibrato, calmo, gentile e perbene. Uno che vorresti sempre a cena a casa tua. Un campione senza tatuaggi e senza staff personale. Uno che ci ha fatto vincere il Mondiale attento sempre a non coprire la nostra gioia ma senza mai rinunciare ad usare il suo cervello. Un simbolo di anni semplici ma felici. La storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano.

(nella foto, Paolo Rossi, direttore per un giorno a Metro)

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