di GIAMPIERO GRAMAGLIA

“Il messaggio che arriva dai media è questo: la narrativa su come la società dovrebbe porsi rispetto al razzismo deve essere allineata con le voci più radicali… Le opinioni che deviano da questa linea non saranno tollerate”. Lo scrive Jarrett Stepman, sul Daily Signal del Morning Bell, la newsletter della Heritage Foundation. L’articolo di Stepman, intitolato “L’occupazione delle redazioni da parte dei guerrieri della giustizia sociale”, racconta e commenta quanto accaduto al New York Times, dove la pubblicazione dell’op-ed (opinione esterna alla redazione) di un senatore ‘trumpiano’ ha suscitato un pandemonio, marce indietro, dimissioni.

Stepman ne tira la conclusione che “le redazioni sono oggi zeppe di attivisti”, più che di giornalisti. Ora, la Heritage Foundation è un think tank conservatore serio e io scorro spesso il Daily Signal, cercandovi conferme in negativo – se la pensano al contrario di me, va bene –. Mi stupisce, e un po’ mi preoccupa, scoprire stavolta elementi di sintonia.

Sinceramente, mi causa disagio la reazione della redazione del New York Times alla pubblicazione del commento del senatore Tom Cotton, che, all’unisono con il presidente Donald Trump, chiedeva l’intervento dell’esercito per sedare le proteste anti-razziste scoppiate nell’Unione dopo l’uccisione, a Minneapolis, il 25 maggio, di un nero di 46 anni, George Floyd, soffocato da un poliziotto che gli ha tenuto il ginocchio premuto sul collo per 8 minuti e 46 secondi.

E siccome ho il massimo rispetto per il NYT e il suo staff mi chiedo se non mi sfugga qualcosa, magari la percezione del clima creatosi negli Stati Uniti in queste settimane di tensioni razziali, cui la Casa Bianca ha costantemente risposto gettando olio sul fuoco.

diritto di opinione

Ora, Cotton, come Trump, che è stato contraddetto dall’attuale segretario alla Difesa Mark Esper e dal suo predecessore, il generale James ‘cane pazzo’ Mattis, oltre che dal capo di Stato Maggiore delle Forze Armate degli Stati Uniti, il generale Mark Milley, hanno una posizione sbagliata e anti-costituzionale: i militari devono proteggere il Paese da una minaccia esterna o da un colpo di Stato, non devono negare ai cittadini il diritto costituzionale a manifestare e a protestare; se si verificano atti di violenza sporadici e/o sistematici, spetta alla polizia intervenire.

Però Cotton, come Trump, hanno il diritto di dire come la pensano. Altrimenti si nega loro quello che loro, con l’esercito, vorrebbero negare a chi manifesta, la libertà d’espressione. Un op-ed non impegna la linea del giornale; e a un op-ed se ne può contrapporre uno in dissenso, che, se del caso a nome del giornale, sostenga il contrario.

Che pubblicarla diventi un tabù mi sembra un eccesso di ‘politically correct’, al punto da divenire scorretto. Politicamente e giornalisticamente. Almeno, così mi pare.

Adesso, raccontiamo la storia, usando come fonti diversi media Usa, senza affidarmi a Stepman. Tutto comincia il 4 giugno, quando esce sul NYT l’op-ed di Thomas Bryant ‘Tom’ Cotton, 40 anni, senatore dell’Arkansas al primo mandato, dopo un mandato da deputato, reduce dalle guerre in Iraq e in Afghanistan, dove ha combattuto dal 2005 al 2009 nella 101° divisione aviotrasportata dell’Esercito Usa: è così vicino a Trump da essere soprannominato ‘Trump 2.0’.

L’uscita dell’op-ed innesca subito fermento in redazione, che va crescendo di ora in ora. Il giorno dopo, il New York Times fa mea culpa: il responsabile delle pagine delle opinioni, James Bennet, ammette di non avere letto il testo di Cotton prima di pubblicarlo, il board del quotidiano dichiara che l’op-ed del senatore “non è all’altezza degli standard del giornale”.

Suona male per Bennet, che nel fine settimana si dimette. Il NYT ne dà notizia con un tweet, in cui precisa che le dimissioni hanno effetto immediato. Via pure il vice di Bennet, Jim Dao. Ma questo, fa intendere l’editore, potrebbe essere solo l’inizio: “Abbiamo concordato che serve un nuovo team,nel momento in cui stiamo affrontando un periodo di considerevoli cambiamenti”, afferma una nota di A.G. Sulzberger. La guida della pagina delle opinioni è affidata a un altro vice, Katie Kingsbury, che dovrebbe restare in carica fino alle presidenziali di novembre. Poi, si vedrà.

Sempre su tweet, arriva il commento di Trump, che difende l’opinione di Cotton, che è la sua, e bolla il giornale Fake News”, come del resto di solito fa anche per il Washington Post e la Cnn, “nemici del popolo”, accusandoli di mancanza di trasparenza e di promuovere disinformazione.

L’onda del terremoto al New York Times investe altre testate: al Philadelphia Inquirer il direttore Stan Wischnowski si dimette dopo che un articolo intitolato ‘Buildings Matter, Too’ (poco felice: ‘Anche gli edifici contano’) aveva scatenato l’ira del corpo redazionale. L’editore del quotidiano, Lisa Hugh, ha accettato la decisione di Wischnowski, alla guida del quotidiano per dieci anni.

L’articolo riguardava l’impatto delle manifestazioni anti-razziste sul patrimonio immobiliare ed era del critico d’architettura interna del giornale Inga Saffron: il titolo riprendeva lo slogan ‘Black Lives Matter’, che da anni scandisce le proteste anti-razziste. Subito dopo l’uscita dell’articolo, i vertici del quotidiano, incluso Wischnowski, avevano pubblicato una nota di scuse: “Il titolo era profondamente offensivo. Non avremmo dovuto stamparlo”.

Brutalita’ della polizia

Malumori anche al Washington Post di Jeff Bezos. La redazione s’è divisa perché Wesley Lowery, premio Pulitzer 2016 e una figura di punta del giornale per le sue inchieste sui temi della brutalità della polizia, se n’è andato dopo essere stato minacciato di licenziamento dal direttore Marty Baron, oggi il direttore più illustre d’America, dopo il Pulitzer al Boston Globe per gli scoop sulla pedofilia del clero (‘Spotlight’) e molti altri premi di eccellenza giornalistica al Washington Post. Baron voleva che Lowery s’attenesse alla linea editoriale che vieta ai giornalisti di esprimere opinioni troppo personali su Twitter e in televisione.

Dimissioni anche a Condé Nast: Adam Rapoport, ‘top editor’ della rivista di cucina Bon Appétit, perde il posto per essersi fatto fotografare in un costume denigratorio nei confronti dei portoricani.

Infine, nel giorno in cui il rivale Harper’s Bazaar nomina per la prima volta una donna di colore, Samira Nasr, direttrice, Anna Wintour, la donna cui s’ispira il personaggio di Meryl Streep ne ‘Il diavolo veste Prada’, si scusa con gli afroamericani che lavorano per Vogue: in un memo allo staff la Wintour si cosparge il capo di cenere per non avere fatto quanto poteva per giornalisti, fotografi e stilisti neri: “Condivido – scrive – quel che state provando. Lo dico in specie ai neri del nostro team: non riesco a immaginare come abbiate vissuto questi giorni”.

Le scuse della Wintour seguono di pochi giorni l’uscita di ‘Trincee di Chiffon’, il libro d’una ex star della rivista, Andre Leon Talley, che accusa Anna d’intolleranza e di mancanza di sensibilità.

La Nasr, ex fashion director di Vanity Fair e simpatizzante del movimento Black Lives Matter, segna per l’edizione americana di Harper’s Bazaar l’inizio di un “nuovo capitolo”, all’insegna dell’inclusione nei 153 anni di storia della rivista di moda del gruppo Hearst. La Nasr, padre libanese e madre di Trinidad, vuole raccontarlo attraverso lenti per loro natura colorate”.

(nella foto, il senatore Tom Cotton e Donald Trump)

LASCIA UN COMMENTO