di FABRIZIO PALADINI

Fu una rivoluzione. Il 3 luglio 2000 era lunedì. Il giorno prima l’Italia di Dino Zoff aveva perso la finale dei Campionati Europei a Rotterdam contro la Francia: 2-1 col golden gol ai supplementari. Non proprio un buon giorno per una rivoluzione.

Eppure, quel lunedì, alle 6,30 del mattino faceva la sua comparsa un nuovo giornale. Un quotidiano gratuito, distribuito nelle stazioni della metropolitana di Roma. Si chiamava Metro ed era l’edizione italiana del fratello maggiore inventato in Svezia. Mai si era stampato in Italia un quotidiano gratuito. Sono stato il suo primo direttore, dal 2000 al 2004.

L’editore era svedese, appunto, ed aveva già aperto lo stesso giornale in Olanda, Finlandia, Ungheria, Danimarca, oltre alle edizioni svedesi a Stoccolma, Malmoe e Göteborg.

Mi avevano contattato quando ero capocronista al Messaggero, dove stavo da 21 anni.

Il proprietario era una specie di Berlusconi svedese, che aveva interessi nella comunicazione, nelle prime uscite della banda larga e nella telefonia. Jan Stenbeck è stato un pioniere dei nuovi media, aveva fondato Tele 2, Millicom e naturalmente Metro.

City e Leggo

L’uscita di Metro non fu accolta bene dai giornali tradizionali. Avevano paura che un giornale gratuito “rubasse” loro lettori e infatti molti grandi editori tentarono contro Metro cause legali per concorrenza sleale, dumping interno e altre diavolerie che però persero puntualmente. Tanto da pubblicare, qualche mese dopo, quotidiani gratuiti come City del gruppo RCS e Leggo del gruppo Caltagirone, proprio per fare concorrenza a Metro.

In realtà i quotidiani gratuiti non “rubavano” copie alle edicole, ma semplicemente acquisivano lettori nuovi. Gente che non avrebbe comunque acquistato Repubblica o il Corriere, il Messaggero o l’Unità, si informava in tutto e per tutto con Metro, il quotidiano della metropolitana. E quindi questa fu la prima rivoluzione.

Metro arrivò in Italia ad avere due milioni di lettori al giorno, mentre a quell’epoca i giornali venduti in edicola in tutta Italia arrivavano a 6 milioni di copie.

La seconda rivoluzione fu l’introduzione di articoli molto brevi. Per dare una notizia bastavano 10 righe, 20 era già un “pezzo”. I paginoni monografici arrivavano a 50 righe.

Uno stile asciutto, ma curato e verificato in ogni dettaglio. Basta dire che, solo per l’edizione romana, erano stati assunti a tempo pieno due correttori di bozze. E questa era la terza rivoluzione: la gente, anche quella che non pagava per informarsi, anche quella dei ceti più bassi, doveva essere rispettata al massimo. Quindi gratuito sì, ma di qualità.

Nei suoi momenti di maggior diffusione, Metro nel mondo aveva qualcosa come 25 milioni di lettori, in 220 città di 25 Paesi: Cina, Russia, Stati Uniti, Brasile, quasi tutta l’Europa.

Per valutare la qualità delle singole edizioni – Metro era davvero un prodotto glocal – gli editori svedesi (ma il management era di tutto il mondo, con sede centrale a Londra) avevano istituito il Metro Quality Award. Due volte all’anno la società demoscopica Gallup faceva un accurato sondaggio intervistando i lettori. Era questo il loro unico criterio di valutazione. Non gliene fregava nulla se parlavi bene di Berlusconi o male del Papa, a loro interessava solo quel “survey”. Si faceva una classifica sulla qualità dell’informazione e il miglior direttore vinceva 25mila sterline, i peggiori venivano sostituiti. Metro Italy lo vinse due volte, negli anni della mia direzione.

un direttore libero

Quando sono stato assunto, mi hanno detto: “Questo è il budget, gestiscilo come meglio credi e poi valuteremo i risultati”. Potevo scegliere chi assumere, chi contrattualizzare come collaboratore, quali foto comprare, a quali agenzie di stampa abbonarmi. Ne rispondevo io, ma avevo la massima libertà di azione.

La quarta rivoluzione fu nel piccolo mondo del giornalismo: tutti, dico tutti, i redattori vennero assunti come articoli 1. Non ho mai avuto una causa intentata da “abusivi di redazione”, o da colleghi sfruttati per cose diverse da quelle per le quali erano retribuiti. In quattro anni di direzione non è mai successo una sola volta che qualcuno degli editori alzasse il telefono per dirmi di “spingere” su un tema o “tralasciarne” un altro considerato scomodo. Personalmente mi sembrava di vivere su Marte, ma questo credo lo possano testimoniare i tanti colleghi bravissimi che da Metro sono andati a lavorare in altri giornali considerati “più prestigiosi”  e anche quelli che 20 anni dopo la prima copia sono ancora lì a combattere per mantenere viva questa grande testata.

So che adesso sono tempi difficili per Metro. L’editore succeduto agli svedesi, Mario Farina, ha venduto le sue quote ad una società che non sembra avere esperienza nella realizzazione di quotidiani ed il futuro del “mio” giornale non è roseo. Spero davvero che Metro torni ad avere quel ruolo di informazione diffusa che ha avuto per 20 anni. Entrare nella metropolitana alle 7 del mattino sembrava uno spot pubblicitario studiato per l’advertising: nel vagone tutti leggevano Metro e, arrivati alla fermata di destinazione, lo lasciavano sui sedili per altri nuovi passeggeri.

Sì, è stata una piccola grande rivoluzione.

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