Vorrei fare un altro commento. Ho letto, intanto, la presentazione che Professione Reporter ha fatto del libro “Carta straccia” di Roidi, in attesa di leggerlo. Una presentazione esauriente che elenca gli argomenti trattati nel libro. Ora vorrei aggiungere una cosa. Forse sbaglio, probabilmente mi renderò antipatico. Pazienza, a quasi ottanta anni la faccenda non mi scalfisce più di tanto, ma ci tengo a dire quello che penso. Perché non si parla mai anche di come vengono fatti i giornali? Perché non si parla mai di come vengono date certe notizie, spesso travisate o addomesticate? Di certi commenti o editoriali che sempre più spesso lasciano il tempo che trovano o gridano vendetta? È giornalismo quello che fanno tanti quotidiani ogni giorno? E vogliamo parlare del tipo di informazione che danno, tanto per non fare nomi, il Tg1 e il Tg2, servizio pubblico? E i cosiddetti talk show, almeno una parte di loro? Perché non se ne parla mai? Eppure mi sembra che sia un problema nel problema. Sono sicuro di fare il bisbetico, ma penso che oltre che salvare il giornalismo dovremmo salvarlo da certi giornalisti, cattivi maestri, incompetenti, spesso molto compiacenti. Anche questo non aiuta il giornalismo. Almeno come lo intendiamo in molti.

gaitapierrenato@gmail.com

1 commento

  1. Renato Gaita ha ragione. Non sono un nostalgico perché la storia del giornalismo è, eccezioni a parte, una storia di omologazione. Però, però, però. Nel ‘900 le eccezioni sono state numerose e soprattutto nel secondo dopoguerra, quando la generazione che aveva fatto opposizione al fascismo (poche migliaia di persone tra milioni di italiani) ha preso il potere e le redini di tutto, editoria compresa, proprio le eccezioni hanno potuto farsi valere. Più che ovvio che la qualità di quelle persone, che avevano patito sofferenze enormi e che avevano le idee chiare su ciò che andava fatto, non è la qualità della classe dirigente di oggi, ammesso che di qualità (soprattutto culturale) si possa parlare. Un direttore di quotidiano, di un qualsiasi quotidiano italiano di provincia, aveva prestigio e faceva il cane guida per una proprietà spesso carica di grana ma priva degli indispensabili strumenti culturali. A cascata, ecco che nelle redazioni trovavano posto nei ruoli cardine personalità (con una impostazione anche ideologica, per carità) che a loro volta formavano nuovi giornalisti, etc. Questo meccanismo si è slabbrato del tutto. A destra, al centro e a sinistra. La qualità è poca. Il prodotto è povero (anche quando è frutto di redazioni considerate ricche) anche di idee, e il lettore se ne accorge. Il prestigio è nell’incarico. Il seguito dei lettori sempre più risicato. Al contrario, il mondo del web ha restituito a singole figure, più raramente a contesti collettivi, prestigio, affidabilità e seguito. Da notare come, tranne rarissime eccezioni, gli strumenti digitali sono ancora oggetti sconosciuti per i giornalisti di punta dei nostri maggiori quotidiani, per non parlare dei social. Le testate hanno cercato di rimediare al gap ingaggiando professionisti esterni (influencer, blogger, etc) assai spesso con esiti non felicissimi in termini di risultati. Come se l’influencer chiamato ad agire sotto una certa testata fosse meno affidabile, meno prestigioso, meno libero di dire ciò che pensa e, conseguentemente, meno interessante. L’opinione pubblica percepisce, a torto o a ragione, chiaramente questa diminuzione. E la ragione sta appunto in ciò scrive Renato Gaita, secondo me.

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