Dieci consigli per scrivere bene. E dieci divieti per non scrivere male. Fanno parte del libro di Angela Padrone (già Vicecapo redattore del Messaggero, titolare del Laboratorio di scrittura dell’Università della Tuscia) “Scrivere al tempo di ChatGPT- Articoli, temi, tesine, mail, lettere d’amore e prompt” (Rubettino editore).
Ecco, in breve, il “Decalogo dei sì”
1- BREVITA’. Un consiglio che si riferisce al singolo periodo, ma anche all’intero testo. Se si può dire una cosa con due frasi, non usate due pagine. Non fate premesse, andate dritti al punto. E chiamate le cose con il loro nome. Se scrivete frasi che superano la riga e mezza state attenti. Se dovete buttare giù una “paginetta” e ora state arrivando alla terza, fermatevi e ricominciate.
2- CHIAREZZA. E’ l’unico, vero obiettivo di chi scrive: farsi capire. Evitate i giri di parole, non entrate in dettagli inutili, non usare acronimi da iniziati. Il lettore ha tutto il diritto di non sapere cosa sia il Def, il Mes, i Neet o il Pif, anche se voi li usate tutti i giorni.
3- VERITA’. Quando si scrive non è solo una questione di forma. Il contenuto è ancora più importante. Bisogna avere qualche cosa da dire. Vale soprattutto per il giornalismo, ma dovrebbe costituire la base di ogni comunicazione, privata e pubblica. Diceva Joseph Pulitzer che un giornalista “deve sapere esattamente ciò che vuole dire, come dirlo e quando fermarsi”. Un altro grande teorico americano del giornalismo, Walter Lippman, distingueva tra notizia e verità: la prima è “segnalare un fatto”, mentre “la funzione della verità è di portare alla luce i fatti nascosti”.
4- SEMPLICITA’. Quasi tutto può essere reso semplice, il che non significa banale. Il fisico Carlo Rovelli ha scritto un libretto di 200 pagine per cercare di spiegare a tutti la fisica dei quanti. A un certo punto dice: “La scoperta della natura quantistica della realtà è la scoperta che la natura del mondo fisico è essa stessa comprensibile come una rete di correlazioni: come informazione reciproca, precisamente nel senso fisico di correlazione”. Sicuramente è una semplificazione. Se invece, per spiegare la teoria di Einstein scriviamo: “La teoria della relatività dice che tutto è relativo”, questa è una banalità e non va bene.
5- ESEMPI E CITAZIONI. Un buon esempio risveglia l’attenzione del lettore e fa capire meglio di cosa si sta parlando. Un buon esempio risveglia anche l’attenzione di chi scrive, perché lo costringe a misurare le parole e i ragionamenti alla luce della realtà, o del verosimile. E anche le citazioni sono fondamentali: sono come i chiodi quando si fa una scalata. Naturalmente, la citazione deve essere breve. Non mezza pagina.
6- IMMAGINARE UN INTERLOCUTORE. Non si parla al mondo, ma a qualcuno in particolare. Se scrivete una mail al vostro professore sarà ben diverso da una lettera alla mamma o ad un amico che non vedete da dieci anni. Se scrivete una relazione al capoufficio è diverso che scrivere una relazione al capo di un altro settore, che non sa quasi nulla delle vostre routine di lavoro. Se scrivete un libro il lettore è un po’ più indeterminato, ma voi dovete fargli arrivare la vostra voce, come se aveste scritto proprio per lui. Che vuol dire? Che quel lettore deve riuscire a capire quello che scriviamo. E se non lo capisce, è quasi sempre colpa di chi scrive.
7- RILEGGERE E CORREGGERE. Rileggere e correggere è la parte più importante della scrittura. Chiunque scriva un articolo o un libro, o una mail, rilegge e corregge innumerevoli volte. L’ultima versione non sarà mai uguale alla prima. Esistono casi rari di giornalisti che scrivono quasi tutto di getto e correggono poco, ma sono appunto rari. E, poiché sono bravi, il giornale accetta qualche errore, che qualcun altro si incaricherà di correggere. La fretta fa fare errori a tutti. E se non trovate niente da correggere, insospettitevi.
8- TAGLIATE. E’ incredibile quante frasi e parole inutili usiamo. Quanti aggettivi superflui o dannosi. Quanti avverbi inutili, vuoti. Quante frasi ripetitive. In ogni testo c’è sempre qualcosa da tagliare per migliorarlo. Lo scrittore Raymond Carver tagliava i suoi racconti “fino al midollo, non solo all’osso”.
9- NON VI INNAMORATE. Ognuno di noi, dopo aver sudato e sbuffato su una pagina bianca, ritiene a un certo punto che tutto vada bene. Che tutto sia perfetto. Sappiate che nulla è irrinunciabile e tutto è migliorabile. Ci sono frasi che quando le abbiamo scritte ci sembravano bellissime, di una rara perfezione, e che invece erano barocche, ridondanti, inutili, pompose. Non bisogna innamorarsi troppo di ciò che si scrive. Gli scrittori anglosassoni, dicono “kill your darlings”, cioè uccidete i vostri tesorucci.
10- DUBBI. Sono bellissimi. Se avete dei dubbi mentre scrivete o rileggete il vostro testo, siete sulla buona strada. Se avete dubbi sul significato di una parola o su come si scrive, andate a cercare su un vocabolario. Ma attenzione, perché chiedendo a Google o a un chatbot potreste avere risposte utili e meno utili. E dovete essere voi, alla fine, a giudicare. Se avete dubbi su una frase, immaginate di leggerla a qualcuno.
Ed ecco il “Decalogo dei no”
1- IO. La prima persona singolare non va usata quasi mai, a meno che non stiate scrivendo una lettera a un’amica, o non stiate rispondendo a qualcuno che vi ha chiesto espressamente un parere, o a meno che non parliate della vostra salute o delle vostre memorie. Nel giornalismo è utilizzato raramente. Magari da chi ha vissuto un’esperienza unica, per esempio un giornalista sequestrato in una zona di guerra.
2- CHE. Il pronome relativo in una frase è come l’autovelox: vi costringe a rallentare e a riflettere. Non vuol dire che non si possa usare, ma deve essere usato in modo appropriato e con parsimonia. Se poi ce ne sono due di seguito, state andando per una strada pericolosa. Mettete un punto e ripartite.
3- IL PASSIVO. I verbi al passivo sono utili, ci mancherebbe. Ma raramente. Rischiano di far avvolgere la frase in una spirale che alla fine risulta poco chiara. Possono nascondere il soggetto dell’azione o dell’opinione. E spesso in questo tipo di frasi si insinua anche l’aggravante del pronome riflessivo, che dà un tono di vaghezza a tutto il testo. Un semplice esempio: “I dati sulla disoccupazione possono ritenersi solo approssimativi rispetto alla realtà del mondo del lavoro”. Perché non dire: “I dati sulla disoccupazione non descrivono esattamente la realtà del mondo del lavoro”?
4- AVVERBI E AGGETTIVI. Rileggendo quello che avete buttato giù, vi accorgerete che nell’80% dei casi è meglio toglierli. “Sostanzialmente, fondamentalmente, generalmente”: quasi sempre dicono il contrario di quello che vorrebbero, rendono tutto molto indeterminato e vago. Gli aggettivi sono un po’ meno colpevoli degli avverbi, ma vanno tenuti d’occhio. Nel giornalismo vecchia scuola si diceva: per gli aggettivi ci vuole il permesso del caporedattore.
5- IL GERUNDIO. Esiste e ci sono casi in cui va usato. Però è un altro di quei segnali che ci invita a essere cauti: è bene notare che lo stiamo usando ed è bene domandarsi in quel momento se sia indispensabile.
6- GERGO E FRASI FATTE. Termini tecnici, parole usate solo in certe professioni, a meno che non si scriva per i colleghi o per addetti ai lavori, vanno evitate. Nel caso un termine tecnico sia proprio necessario, va spiegato. Le frasi fatte sono l’opposto del gergo, sono ripetute da tutti incessamente, ma altrettanto fastidiose. “L’apposito modulo”, “ai posteri l’ardua sentenza”, “l’attesa snervante”, “l’incomparabile bellezza”, sono tutte frasi che potete sostituire con qualcosa di più personale, meno ovvio.
7- FRASI LUNGHE. Nel giornalismo sono rare, perché i giornalisti hanno poco tempo per riflettere quando scrivono, e sanno che il modo più sicuro per non sbagliare sono le frasi brevi. Inoltre le frasi lunghe sono più complesse per il lettore (anche quando sono scritte in modo corretto) e quindi lo fanno faticare. Quindi, se avete scritto una frase di tre o più righe, due sono i casi: o siete molto bravi, e non avete nulla di cui preoccuparvi, oppure tagliatela con un punto. Questo vi consentirà anche di revisionare la logica del discorso e capirete se fila oppure no.
8- PAROLE STRANIERE. Non sono il Male, come qualcuno dice. Però esistono quasi sempre delle perfette traduzioni, che semplificheranno la vita al lettore. Se proprio dovete usare una parola straniera particolarmente significativa e difficile da tradurre, datene comunque il significato. L’italinglish tipo “supportare”, “schillare”, “schedulare” è veramente orrido. Temo, però, che la battaglia contro “ho una call”, sia persa.
9- VAGHEZZA. Che cos’è la vaghezza? E’ quando diamo l’impressione che non sappiamo ciò di cui stiamo parlando. A volte è voluta, come quando i giornalisti scrivono “ambienti del governo”, per dire che hanno avuto una notizia da una fonte autorevole, che non possono nominare. Quando si scrive è utilissimo citare un fatto, una data, un nome, una cifra, o una percentuale, per ancorare il racconto alla realtà. Se scriviamo “qualcuno”, “parecchi”, “a quel tempo”, “molto” o “molti”, “abbastanza” vuol dire che non sappiamo né da dove veniamo, né dove stiamo andando.
10- LA MORALE. E’ la tentazione di concludere uno scritto, un articolo, un saggio, traendone la morale: una frase edificante, spesso una morale da quattro soldi, o non dimostrata, con cui concludere la narrazione o il ragionamento. E’ diverso dalla “conclusione”, che invece può essere utile e dare la sintesi di ciò che si è scritto in precedenza. No anche ai pareri non richiesti. Per esempio, alla fine di un articolo serio sul cambiamento climatico, evitate di scrivere: “Personalmente, penso che i motori elettrici siano una cura peggiore del male”. A volte, invece di cercare un finale, è meglio fermarsi e basta.