La Repubblica, grande giornale, grande direttore, grande squadra, grandi collaboratori. Attraverso quel giornale, dal 1979, giovanissimo, e fino alla cacciata di Verdelli nel 2020, ho visto, letto e interpretato il mondo, spesso dissentendo, ma con “interlocutori” di grande valore professionale e morale.
Grazie Eugenio Scalfari.

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1 commento

  1. Eugenio Scalfari

    Per chi come me si è formato sulle pagine prima dell’Espresso e poi di Repubblica, la scomparsa di Eugenio Scalfari – in senso fisico, la sua voce non si sentiva più da tempo, e ancora prima, aveva mutato toni e temi – segna la chiusura definitiva di un’ epoca.
    Avevamo poco più di vent’anni, io ed il mio amico Marcantonio Abbate, quando, ancora studenti, nel novembre del 1975 andammo al Circolo della stampa di Napoli (una palazzina nella Villa Comunale che da tempo è stata destinata ad altro) per assistere alla presentazione del nuovo quotidiano che sarebbe arrivato in edicola il 14 gennaio dell’anno successivo, che si sarebbe chiamato “la Repubblica” e che sarebbe stato diretto da chi lo presentava, Eugenio Scalfari, appunto.
    Sapevamo già bene chi fosse Scalfari, lo leggevamo già da alcuni anni sull’Espresso, su cui scriveva essenzialmente nella sezione economica, dopo esserne stato, in uno ad Arrigo Benedetti, il fondatore ed il direttore, e le aspettative erano alte e non andarono deluse.
    So bene che per molti non è così, che gli preferiscono Montanelli (sto parlando ovviamente delle qualità professionali, non delle posizioni politiche) ma per quanto mi riguarda Scalfari è stato il più grande giornalista italiano di sempre, o almeno da quando ho memoria.
    Ha inventato il giornalismo economico, rendendolo comprensibile a tutti, ha fondato e diretto un grande settimanale ed un grandissimo giornale.
    Repubblica è stato il punto di incontro tra la sinistra e la borghesia più avanzata del Paese.
    Scalfari era amico personale di Giancarlo Pajetta e di Guido Carli, di Enrico Berlinguer e di Ugo La Malfa, di Alfredo Reichlin e di banchieri come Giovanni Bazoli, sul suo giornale apparivano fianco a fianco le firme di Alberto Ronchey e di Alberto Jacoviello, e dalla lettura di entrambi chi leggeva era messo in grado di operare quella sintesi che connotava Repubblica come un grande giornale di ispirazione radical-socialista, erede in tutto e per tutto del Partito d’Azione, del Mondo di Mario Pannunzio, Arrigo Benedetti ed Ernesto Rossi.
    Ha raccolto attorno a sè ospitandone gli scritti sui giornali che dirigeva, i più grandi intellettuali italiani, da Alberto Moravia ad Alberto Arbasino, da Umberto Eco ad Italo Calvino (di quest’ultimo era stato compagno di banco a Sanremo negli anni del liceo)
    Mai stato comunista, individuò da tempi non sospetti nel popolo che votava PCI la parte migliore della società italiana, e ha speso gran parte delle sue energie per agevolarne l’evoluzione in moderno partito socialista occidentale.
    Denunciò, con Lino Jannuzzi, il piano Solo del fallito colpo di Stato del generale De Lorenzo, ha combattutto – pressochè in solitaria con i colleghi a lui più vicini – la “Razza padrona” (titolo del suo libro più famoso scritto con Giuseppe Turani) dei boiardi di Stato, quella particolare genìa di avventurieri che ebbe la sua massima espressione in Eugenio Cefis, e che diede l’assalto agli enti economici statali, facendo strame dell’IRI, dell’ENI, dell’EFIM, della SME.
    Individuò e denunciò per tempo la mutazione antropologica del Partito socialista, divenuto, con l’avvento di Craxi, il progenitore del berlusconismo.
    Ha avvertito il pericolo per le istituzioni quando Cossiga cominciò a picconarle, preda delle sue paranoie, dal Colle più alto.
    Ha costituito con il gruppo editoriale che a lui faceva capo l’autentico polo culturale che si è opposto a Berlusconi nel ventennio che lo ha visto dominare la scena pubblica.
    Ha commesso diversi errori, ma il più grave di tutti è non aver denunciato per tempo che la mutazione antropologica stava avvenendo anche nel PD, fino a sostenere, salvo ricredersi poi, Matteo Renzi ed il suo sciagurato referendum del 2016, passando incomprensibilmente dalla dichiarazione di voto per il NO a quella per il SI poco prima del voto.
    Anni fa, appresi con un certo stupore della sua bigamia: Scalfari ha diviso la sua vita sentimentale tra due donne, Simonetta Debenedetti figlia del grande direttore de La Stampa Giulio Debenedetti, e Serena Rossetti, amori vissuti contemporaneamente, poiché nessuna delle due lo mise mai di fronte alla scelta.
    Da alcuni anni a questa parte si era sempre più estraniato dalla scena politica, dedicandosi ad altre questioni, diciamo “spirituali”, stringendo anche uno speciale legame di amicizia con Papa Francesco.
    Non l’ho letto più già da prima della morte di Repubblica, per mano del duo Elkann-Molinari.
    Ma parliamo di un mondo che non c’è più e che con lui scompare definitivamente.
    Nessuno è in grado di raccoglierne l’eredità, sulla scena pubblica si agitano, anche nel giornalismo, demagoghi e scrivani, molti dei quali, senza di lui, oggi farebbero altri mestieri.
    Addio Barbapapà, non ti dimenticheremo.

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