di ALBERTO FERRIGOLO

“Certo che ho paura. Non sempre. Non mi spaventano le sirene, però quando arrivi al confine percepisci proprio quella paura che credo debbano percepire anche i soldati. I quali – con molta onestà – te la confessano. Uno di loro mi ha detto che la paura non va mai via, però mi ha mostrato il distintivo con il motto della sua brigata: ‘Se non io, chi?’ Sono sostenuti molto da un senso del dovere di difendere la propria patria”. 

Classe 1982, Ilario Piagnerelli è un inviato di esteri sul fronte ucraino per il Tg3. È stato a Kiev, dal 28 febbraio per due mesi consecutivi, poi un mese intero, dal 20 maggio al 20 giugno, quindi è partito per Odessa, Dnipro, Kharkiv, il Donbass. Ha documentato l’orrore di Bucha, i cadaveri, i corpi, l’uomo ucciso in bicicletta, il carroarmato che ha letteralmente schiacciato un auto con il suo conducente a bordo. Con la telecamera ha portato la guerra sin dentro le nostre case.  

Ilario, com’è che si diventa giornalista che si occupa di guerra?

“Più che altro ci ritrova ad essere giornalisti di guerra. Prima di tutto inviati di esteri e io lo sono da diversi anni a Rainews24, poi i conflitti scoppiano e tu sei là, in prima linea. Nessuno ti obbliga, non ci siamo arruolati, però è chiaro che abbiamo un senso del dovere e del servizio pubblico. Quindi ci andiamo. Poi, quando sei lì sta a te saper dosare il coraggio e saperti regolare su quanti rischi ti vuoi e puoi assumere”. 

Ci vogliono una preparazione e una sensibilità particolari, però. La Rai organizza dei corsi? 

“Sì, per partire per zone di guerra è obbligatorio fare un corso sulla sicurezza che la Rai organizza per gli inviati. Io l’ho fatto, e questo è il secondo conflitto che seguo. Avevo coperto la Siria, una trasferta di 15 giorni, quando la Turchia ha invaso il Nord nell’ottobre 2019, mentre in Afghanistan sono stato, ma dopo il ritorno dei talebani, nel 2020. Era comunque tutto molto rischioso, ma era pure una situazione – tra virgolette – di pace, se vogliamo fotografare così la situazione afghana del momento”. 

Di quali doti deve disporre l’inviato di guerra?

“Bisogna essere estremamente adattabili senz’altro, ma cercando di ricavarsi sempre una bolla dove cerchi di evitare l’abbrutimento totale, non rinunci ai tuoi riti, a tuoi ritmi, anche per quanto riguarda banalmente l’igiene personale, il curarsi, vestirsi bene, noi poi andiamo in onda con le telecamere, la valigia è enorme e c’è di tutto. Però bisogna essere estremamente adattabili, amanti dell’avventura, estremamente curiosi, non schizzinosi sul cibo e anche però molto previdenti. Accorti. Portarsi l’acqua quando si parte la mattina, pensare che dopo due ore potrai aver fame perché vai verso un fronte dove certo non trovi i negozi aperti, e la benzina, una tanica di scorta, cose a cui ti abituano a pensare anche gli altri, perché noi siamo sempre accompagnati da una guida locale e se è una persona pratica è meglio”.

Non solo racconti quel che vedi ma fai vedere quel che racconti. Cosa più difficile, perché non ti muovi da solo…

“Ci muoviamo sempre in tre. L’operatore, la guida locale ed io. La guida a volte porta la macchina, oppure c’è un autista che s’assume il compito, mentre in situazioni normali è il giornalista stesso che affitta e guida la macchina. In quel caso c’è una quarta persona, l’autista appunto, ma a Kiev, per esempio, non l’avevamo perché rimanevamo sempre in città”.

Sei sempre in giro, in viaggio, a chi t’appoggi? A quale struttura locale, sia essa informativa, logistica o di servizio? 

“Di solito si fa base in hotel, però va detto che gli ucraini sono estremamente organizzati e nelle principali città come Kiev o Leopoli hanno aperto delle vere e proprie sale stampa, dove i giornalisti di tutto il mondo durante il giorno, specie quelli della carta stampata che si muovono meno o per meno tempo, possono far base. C’è un minimo d’assistenza, si possono stampare documenti, vengono proposte iniziative oppure delle chat per tenersi in contatto. Sono dei punti di raccolta che forse fanno capo al governo, ma sono in realtà organizzati anche da giornalisti locali che propongono escursioni in luoghi dove non è sicuro andare o che sono stati appena liberati. Allora c’è una scorta di polizia, ci vai con altri giornalisti. Ne ho fatte poche di queste cose perché, non che mi senta meno libero, ma per noi stare ai tempi degli altri non è possibile. Abbiamo molte dirette, non possiamo aspettare. È come un viaggio organizzato, con il pulmino”.

Ti sei mai mosso con l’esercito?

“Solo per escursioni brevi di una giornata, questo si. Oppure, a volte, in autonomia si cerca un embedding, di entrare in contatto con un battaglione che si sa che sta combattendo in una determinata area. Si chiede di poter accompagnare i soldati più o meno in sicurezza a filmare le loro attività, come vedere una trincea oppure, per i più temerari, andare proprio nelle postazioni di tiro dell’artiglieria. O, ancora, partecipare a un’evacuazione umanitaria, in quel caso magari con una ong”.

Come filtri le informazioni? Tu sei in un luogo, ma il territorio delle notizie è molto più vasto. Ne racconti la porzione dove ti trovi. Poi però ti sposti anche sulla base di informazioni che ricevi o su input della redazione? Fate mai briefing con altre testate? Lavorate anche in gruppo?

“In verità c’è una molteplicità di fonti. Ci sono quelle che hai sul terreno, quelle più certificate e che t’arrivano dalle agenzie internazionali, perciò uno cerca d’incrociarle tutte e prendere una decisione, perché sono le informazioni che servono nel racconto. Sicuramente le grandi linee le danno le agenzie e i grandi media internazionali, che hanno il tempo e il modo di fare anche le verifiche, cosa che tu sul terreno hai molto poco…”.

Un limite, in realtà.

“Ma sono talmente affidabili, l’Ap, la Reuters, il New York Times, il Guardian…, poi c’è il fixer sul luogo, la tua guida locale che ha le sue fonti. E se è un giornalista tanto meglio, sono i migliori. Poi c’è quel poco che puoi trovare tu e che poi ti serve a volte anche per smentire delle notizie”. 

Spiegati.

“Mi è capitato di smentire la notizia di una fossa comune, che si basava su una confusione che avevano fatto per primi i media ucraini. Erano state trovate due persone in pozzo, però in contemporanea in quel paesotto fuori Kiev c’erano state, ora non ricordo quante, ma diverse decine di dispersi, quindi facendo due più due s’era detto che avevano trovato una fossa comune. Invece era solo un equivoco. La notizia l’ho smentita io andando sul posto, vedendo, chiedendo. Però non è quello lo scopo delle nostre trasferte, andare a cercare le grandi verità, perché appunto ci sono ben altri strumenti per farlo”. 

Qual è allora il vostro compito?

“Siamo sul terreno per raccontare storie che ci rappresentino queste verità e questi fatti. Quando senti parlare d’una città liberata, un conto è dire hanno liberato la tale città, sono tornati i civili, un altro è andarci e farsi raccontare cosa ha significato da tutte quelle persone che sono rimaste per un mese chiuse in una cantina, vedere come hanno vissuto. Certo, quando sono entrato a Bucha, lì mi sono sentito parte di un grande racconto, dove non narravo una storia laterale ma ero io che in presa diretta spiegavo un fatto enorme, che avrebbe poi cambiato le sorti e sconvolto la narrazione di questa guerra. Sono stato tra i primi a entrare. E dopo il nostro ingresso e nei giorni successivi s’era capito cos’era successo, l’enormità del fatto, il massacro, le fosse comuni, i crimini di guerra”. 

Sei inviato Rai, fai il Tg3, Rainews24. Quanto decidi tu le tue tappe e gli obiettivi da raggiungere, quanto ricevi input dalla redazione, quanto decidete insieme? C’è un’apposita war-room che decide, controlla, verifica?

“Ho lavorato anche per il Tg1, il Tg2, quand’ero a Kiev facevo tutti i Tg. Tra le valutazioni prima di decidere gli spostamenti c’è anche quella di evitare di accavallarci, sovrapporci con altri colleghi che sono in uno stesso luogo. C’è un coordinamento tra le testate. Una delle cose più apprezzabili di questa guerra è proprio il modo in cui le testate Rai stanno collaborando, mi piace molto”.

Sul campo ci sono molti inviati. Come vi rapportate? Ci sono anche molti free lance, hai contatti con loro?

“Sì e sono anche bravi. In molti casi arrivano prima i free lance, per questioni logistiche, perché si trovavano già lì o anche solo per caso. Ma non è sempre detto. Magari nelle prime fasi del conflitto sui media riconosciuti vedi molti più interventi di free lance, perché si tende a cercar di capire chi è, dov’è e avere subito qualcosa da una persona di riconosciuta professionalità, anche se non è un dipendente. Devi coprire il fatto. Il loro contributo s’è però rivelato essenziale. Mi sento di dire che in questa guerra però la Rai è stata molto veloce, ha avuto sul terreno gli inviati ancor prima che scoppiasse. Ha usato i free lance a integrazione”.

Non c’è il rischio di sovrappiù d’informazione, tra corrispondenze, inviati e free lance sul campo? 

“Una guerra è qualcosa di talmente enorme che forse non è mai abbastanza il tipo di copertura. Però a un tratto potresti anche renderti conto che non riesci più ad arrivare alle persone con un qualcosa di ‘compalling’, come dicono gli inglesi, avvincente, originale, attrattivo e tendi a ripetere un po’ le stesse storie. Non c’è nulla di male, però è chiaro che questa guerra durerà, dicono tutti, forse anni, e a un certo punto ci sarà quella che il premier inglese Johnson ha chiamato la ‘fatigue’, la stanchezza della guerra. La più grande sfida sarà tenere accesa l’attenzione”.

Ti senti coinvolto nel conflitto?

“Anche noi siamo cittadini. Siamo coinvolti e sentiamo il dovere di aiutare un popolo, restando pur sempre osservatori neutrali. Loro sono le vittime e vanno aiutati. I nostri racconti, i servizi, servono anche a quello. È difficile, ma sentiamo anche quest’assillo”. 

Fare l’inviato in una dimensione di guerra è totalizzante. Cosa significa rientrare, anche se per un periodo? Come affronti la normalità fuori dalla guerra?

“Quando arrivi a fine trasferta il più grande desiderio, almeno per me, è quell’oretta di volo senza internet e cellulari. Dormire con un taglio di sole dal finestrino, bellissimo, nell’atmosfera rarefatta dei voli in aereo. In questo caso lo è stato molto meno, il rientro è stato quasi tutto in treno, un’odissea, piegato su sedili scomodi. L’Ucraina è ormai un Paese senza aerei e aeroporti.  Poi però quando sei a casa, dopo il secondo o terzo giorno, ti riprende la smania di sapere e ti riconnetti a tutto il flusso informativo. Cerchi di seguire tutto, i colleghi, leggere, è una brutta malattia… Almeno per storie e contesti simili, poi ci sono pure trasferte che una volta rientrato le dimentichi”.

Quanto di passione e di “ossessività” c’è in questa professione?

“È un mix. Ti conquista man mano. Quando parti hai ansie e paure molto autoriferite, anche solo sul tuo senso d’inadeguatezza. Poi t’accorgi che stai raccontando cose talmente importanti, anche per le scelte che deve fare un Paese, che ti senti molto coinvolto e investito d’una grandissima responsabilità. Se la vuoi fare al meglio devi essere in grado di farla nei limiti di quello che sei, nei limiti della tua stanchezza, delle contingenze. C’è sempre un delicato equilibrio da trovare”.

Un desiderio? 

“Aiutare l’Ucraina. Mi piacerebbe se i nostri servizi aiutassero sempre di più ad avvicinarci all’Ucraina. Non solo per l’aiuto ai profughi, ma anche per questi poveri soldati che sono obbligati a difendere i confini, vengono mandati lì a morire. Ne muoiono a volte più di cento al giorno. Ci sono tanti modi per aiutarli, ci sono le associazioni che inviano kit medici e protezioni personali per i soldati che sono molto male equipaggiati. Lo possono fare tutti aiutando direttamente le associazioni. Ce ne sono tantissime”.  

Ilario Piagnerelli ha iniziato come free lance con società di produzione esterne per La7, piccole esperienze, documentari naturalistici per National Geographic. Laurea in comunicazione a RomaTre, Scuola di giornalismo alla Lumsa, un concorso in Rai come assistente di produzione. Nel 2012 la Rai cerca giornalisti e offre a chi è giornalista professionista di partecipare. Ilario partecipa, fa un anno al Tgr dell’Umbria poi lo chiama a Rainews24 Monica Maggioni, per rinforzare gli esteri. “Lì ho cominciato a fare l’inviato, sono ormai 8 anni”.

(nella foto, Ilario Piagnerelli)

1 commento

  1. Amedeo Ricucci, Ilaria Alpi ed Ennio Remondino restano veri riferimeti ideali di inviato di guerra…il resto non so..

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