di MICHELE MEZZA

Con la campagna elettorale è subito partita la rumba attorno a testate e tg. La par condicio si conferma sempre meno adeguata a disciplinare un sistema informativo che si espande come una galassia, arrivando sempre più vicino agli utenti come centro di produzione.

La guerra in Ucraina in pochi mesi ci ha mostrato come l’informazione sia parte essenziale della logistica militare, non tanto e non solo per la scia di propaganda inevitabile che comporta, quanto per l’integrazione nelle attività di combattimento della strumentazione digitale: smartphone, GPS, satelliti, connettività, piattaforme , decrittazione, cloud, droni, bots. 

conflitti militari

Inoltre proprio gli apparati digitali sono ormai terreno di scontro fra competenze ed interessi. Da anni, diciamo dall’esplosione del caso Cambridge Analytica, che ancora tiene banco nelle aule dei tribunali e del congresso americano, le capacità di profilazione e di irruzione nei sistemi digitali avversi sono diventate forme di prolungamento dei conflitti militari.

Come ha teorizzato il capo di stato maggiore russo Valery Gerasimov, “ oggi la guerra si conduce mediante l’interferenza nel senso comune e nelle psicologie dei paesi avversi “.

A questo punto diventa essenziale che proprio il mondo del giornalismo si ponga il tema di essere titolare e testimonial della bonifica della rete, almeno degli spazi che coincidono con la diffusione dell’informazione. Non si tratta solo di combattere la diffusione delle fake news, quanto di rendere il web un luogo di produzione e condivisione di news alla luce del sole, e non attraverso canali clandestini che arrivano direttamente sui telefonini di milioni di utenti, prevalentemente collocati nelle aree dei collegi elettorali più contendibili, sempre all’insaputa del resto della comunità.

motore della democrazia

Come sappiamo il giornalismo, fin dalla nascita degli stati nazionali, nel XVII° secolo, è un motore fondante della democrazia perchè rende pubbliche le notizie e permette a tutti di conoscere cosa viene diffuso, per poterlo eventualmente contestare e correggere. L’opinione pubblica si forma proprio mediante questo meccanismo di dialettica, sulla base di un flusso di contenuti noti a tutti. Ma se io, cittadino o giornalista, non so cosa viene recapitato ad ogni singolo utente, come è possibile intervenire e concorrere ad una più consapevole informazione, integrando e discutendo quel contenuto?

In questi ultimi anni, lo spiega bene Jill Abramson nel suo fondamentale saggio “Mercanti di Verità” (Sellerio, Palermo 2021), accanto all’informazione trasparente di massa si è affermato un sistema basato su quello che lei definisce “l’abbinamento di ogni notizia con ogni singolo destinatario“. Un processo di personalizzazione che dal marketing rapidamente è decaduto a forma di manipolazione e intromissione opaca, che mira a condizionare direttamente la conoscenza e formazione psicologica di ogni utente.

deontologia professionale

Dobbiamo per questo giocare subito la partita della trasparenza. La Fnsi, insieme alle associazioni stampa regionali e ai Cdr, dovrebbe promuovere una mobilitazione per assicurare norme plausibili e coerenti con la nostra deontologia professionale.

Innanzitutto l’Agcom deve pretendere di avere e rendere pubblico il piano degli investimenti nella rete dei partiti. Il professor Marco Mayer della Luiss  (https://formiche.net/2022/07/il-prossimo-governo-non-sottovaluti-energia-e-digitale/ ) ha spiegato dettagliatamente le ragioni di questa richiesta. Non solo dobbiamo sapere quanto ogni partito spende in rete, ma per che cosa. Dobbiamo rendere pubblici investimenti eventuali per l’acquisto di dati territoriali o per la parcella di società di profilazione. 

bombardamento automatico

Ognuno ha il diritto di conoscere i meccanismi di cui ci si avvale per conquistare il consenso  per governare il paese. E i giornalisti devono assicurare che la propria deontologia è oggi forse una delle forme di massima garanzia per una competizione la più trasparente ed egualitaria possibile. Il secondo punto riguarda l’abilitazione dei bot. I sistemi automatici di bombardamento di contenuti non possono essere impunemente usati in campagna elettorale. Sono strumenti che forzano il libero arbitrio, esponendo le nostre volontà ad una pressione indebita. In campo pubblicitario sono tollerati, ma quando è in discussione la delega per il governo del paese e la qualità della democrazia non possiamo affidare alla potenza di algoritmi il nostro libero convincimento. Dobbiamo, come giornalisti, chiedere che la politica intervenga subito e approvi norme per rendere identificabili i bot, distinguendoli così dai post degli esseri umani, e interdire il ricorso a questi strumenti per l’attività di propaganda elettorale.

Tocca a noi ribadire, come spiega una vecchia regola affermata dalla corte suprema americana, ai tempi dei “Pentagon papers”: la libertà d’ informazione serve ai governati e non ai governanti.

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