A un certo punto del perdurante dibattito sui talk show italiani in tempo di guerra, Fabio Martini, giornalista politico della Stampa, fra i più esperti, sapienti e riflessivi, ha voluto riportare il problema all’essenza del giornalismo italiano, ai suoi punti oscuri. Lo ha fatto con un lungo articolo su Huffington Post, il 2 giugno. Il giornalismo italiano, scrive Martini, ha un difetto di fondo: la mescolanza con il potere. Che ne genera un altro, il disinteresse per i lettori (oggi si direbbe “utenti” o “user”). Tema che dovrebbe suscitare un grande dibattito, un ripensamento, un’autocritica, un cambio di marcia. Soprattutto in questo tempo di grossa crisi, per il giornalismo.

Questa però è la sintesi finale. Ripartiamo dai talk show. 

prototipo senza eguali

Innanzitutto, Martini dice: “Il talk show all’italiana è un prototipo senza eguali nei Paesi più evoluti”. Una nostra specialità. In queste settimane si sono formate due opinioni contrapposte. La prima: “Troppo spazio ai simpatizzanti putiniani, più o meno camuffati”. In opposizione: “Va difeso a tutti i costi il pluralismo delle idee”. Secondo Martini, si tratta di argomenti che non reggono “perché rimuovono la ‘missione’ specifica dei media, che non sarà mai quella di limitarsi a garantire un malinteso pluralismo, ma invece sforzarsi di raccontare come stanno le cose, raccogliendo la maggior quantità di informazioni vere e provando a restituirne il senso, il massimo di verità possibile”.

Per questo “servono le armi fondamentali del mestiere: massima accuratezza possibile, massima indipendenza possibile, portandosi dietro la memoria dei precedenti, vicini e lontani. Il contrario di quel che è accaduto in diversi talk show. Ma non in tutti e la differenza si è vista”.

spettatori confusi

Per quali motivi la maggior parte dei talk è andata in altra direzione? Martini elenca tre ragioni. Primo, il format-talk è più condizionato dallo share che dalla ricerca della “verità” possibile. Secondo: gli ascolti si conquistano, attirando la “clientela” con un menu fisso (la solita compagnia di giro) e qualche “piatto” del giorno: personaggi non importa se incompetenti, purché capaci di bucare lo schermo. Terzo: si formano “cast” volutamente eclettici, perché in grado di parlare a segmenti diversi di opinione pubblica. 

Ma il vizio principale è la “dispersione del filo narrativo”:  “Chi guida un talk show dovrebbe aiutare a capire come stanno le cose, seguendo un filo e lasciando il giudizio finale a chi guarda. E invece se tutto si risolve, dando la parola su qualsiasi argomento agli opposti ‘pareri’, a quel punto è ineluttabile che si apra una gara puramente emozionale: la caccia al brivido. La fine è nota: uno spettatore sempre più confuso”.

Con una conseguenza: gli ospiti più “scomodi” sono lasciati liberi di esprimere falsità sesquipedali, senza che i conduttori intervengano. 

indignati e vittimisti

Martini chiama in causa colui che considera il modello di tale sistema: Michele Santoro, che dalla primavera del 1987, con “Samarcanda”, ha via via sperimentato un “sentiment”, spiegato da Beniamino Placido come capacità di fare informazione di qualità, ma servendosi di una piazza “populistico-vittimista”. Dando sempre “ragione a tutti quelli che protestano”.

Con diverse trasmissioni Santoro trascinava 4-5 milioni di telespettatori per puntata: moltiplicati per oltre 20 anni, si può dire abbia formato una fetta di opinione pubblica, indignata e vittimista. 

Ed eccoci al dunque: “In Italia -scrive Martini- si sono scritte e si scrivono da decenni grandi pagine di giornalismo, ma con un vizio congenito: la vocazione a ‘farsi’ potere. Un modello che sta scritto nel Dna nazionale, ancora potente nei grandi giornali: non aver mai condiviso una vocazione al quarto potere, preferendo sempre la tendenza al fiancheggiamento di tutti i poteri. Poteri non soltanto di governo. Si puo’ diventare un potere anche stando all’opposizione, fiancheggiando un partito. O un ‘potere-contro’. E d’altra parte il consociativismo è diffuso in tutti i rami dell’informazione: i giornalisti giudiziari sono (spesso) indulgenti con i magistrati, i critici cinematografici lo sono (spesso) con i grandi registi e lo stesso vale per il giornalismo sportivo, culturale, sindacale, economico. Con una tentazione comune. Partecipare al gioco. Consigliare il potente. Esserne amico. Condizionarlo. Dettargli la linea”.

mai generalizzare

Alla fine, Martini invita a mai generalizzare: “In questa fase bellica i giornali (i grandi e quelli di nicchia) e in genere le trasmissioni delle Reti sotto tiro (La7 e Rai) che dipendono dalle testate giornalistiche sono stati inappuntabili, così come i principali Tg. E d’altra parte contributi assai puntuali sui ‘talk’ sono venuti da parte di diversi giornalisti, a cominciare da Enrico Mentana. Mentre sul piano operativo una informazione rigorosa e seria arriva ogni giorno dai podcast professionali e dai giornali online più seri”. 

In ogni caso, sperando che questi spunti non cadano nel nulla, come avviene da decenni.

1 commento

  1. Così come affermava Marco Tullio Cicerone ” Una legge ingiusta non diventa giusta neppure se viene votata dal popolo all’unanimità” , “Neppure La menzogna diviene verità se affermata dal popolo all’unanimità” Dico io. Quindi è giusto che si possa dire la verità , contrariamente a ciò che vuole l’opinione pubblica. Questo è il vero giornalismo. E la libertà di stampa è essenziale! Siamo alla ricerca della verità , chi manipola l’informazione è indegno di divulgarla!

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