di SOFIA GADICI

Daniele Piervincenzi, 40 anni, moglie e due figli, giornalista freelance, ha seguito sul campo per due mesi la guerra in Ucraina. Ha raccontato il fronte sud e la situazione nel Donbass per La7, Rai e Mediaset.

Ora è in Italia, è tornato a casa “per rimettere in ordine le idee, metabolizzare e disabituarmi alla guerra”, ma promette che tornerà presto in trincea: vuole vivere ancora quella che per lui è “la grande storia per la mia generazione, perché sento il dovere deontologico e professionale di raccontare cosa sta succedendo al popolo ucraino, sgombrare il campo dalle fake news e dai reportage nebbiosi che stravolgono la realtà”.

le facce dei morti

Da freelance in Ucraina ha lavorato a sue spese e dice: “È stato un investimento”. Solo, senza una rete di contatti e senza un’assicurazione. Il suo unico strumento tecnico per molto tempo è stato un telefonino comprato in fretta in Romania, con cui ha filmato ciò che ha visto e inviato le clip su Whatsapp, poi assemblate dalle varie redazioni in Italia. Per il Tg1 ha realizzato anche collegamenti in diretta nell’edizione della sera.

Che esperienza è stata? “Estremamente dura”, lo ripete più volte. Non era preparato a ciò che ha visto e vissuto, ci sono stati tanti momenti in cui ha avuto paura e in cui ha rischiato la vita: “Ora sogno le facce dei morti, sento ancora la puzza di quei giorni che mi si è attaccata addosso”.

seicento puntate

Piervincenzi ha iniziato la sua carriera come giornalista sportivo a 20 anni. Giocava a rugby in serie A e per questo venne scelto da La7 per raccontare al grande pubblico il suo sport, che proprio 20 anni fa, per la prima volta, trovava spazio in tv. Poi è rimasto a La7, ma cambiando settore. Si è occupato di politica (tema di cui è sempre stato “un osservatore attento”) e ha lavorato per quattro anni con Paolo Pagliaro e Lilli Gruber a “Otto e mezzo”. Per lui è stata “una palestra”, che dopo 600 puntate è diventata stretta. “Avevo voglia di raccontare storie – spiega – di uscire dalla redazione”.

E così, da esterno, in Rai ha partecipato a “Nemo”. Era un programma “nuovo, d’inchiesta, molto ambizioso – racconta – ideato da Alessandro Sortino. Proponeva un modo diverso di fare giornalismo, immersivo. Ci mettevamo al livello della storia, senza imporci o infilare il microfono sotto il naso di qualcuno, senza giudicare, lasciandoci anche travolgere dai fatti se necessario”.

il volto e il nome

Infatti, in un’occasione i fatti lo hanno travolto davvero, fisicamente. Per molti Piervincenzi è “il giornalista che si prese una testata da Roberto Spada”, il personaggio di punta del clan dei Casamonica di Ostia. Le immagini di quella violenza, del volto del giornalista sporco di sangue, fecero molto discutere. Rimanendo vittima della brutalità dell’uomo che nel suo territorio incuteva terrore, Piervincenzi diede alla realtà mafiosa romana un volto e un nome.

“Facevamo domande ai mafiosi sotto casa loro, ma trascorrevamo anche una settimana tra i senzatetto di Termini. Siamo entrati nell’ex fabbrica di Penicillina di Roma e abbiamo raccontato la vita di centinaia di immigrati che vivevano lì. Questo dava fastidio e il fatto che fossimo giornalisti esterni alla Rai, senza assicurazione, e che rischiassimo la pelle creò molti problemi”. Il programma è stato quindi “spacchettato” dopo tre stagioni e chi vi lavorava ha dovuto prendere strade diverse.

salotti televisivi

Prima di arrivare in Ucraina, Piervincenzi ha raccontato altre storie: con “Ragazzi contro”, programma di Rai 2, ha descritto la vita dei giovani che vivono in zone difficili del nostro paese; per Sky ha investigato sulla nuova mafia italiana, anche in questo caso non senza difficoltà.

Della sua esperienza dice: “Il lavoro da freelance non è facile, anche economicamente, ma sento di essere un privilegiato, perché ho la possibilità di raccontare gli ultimi. Ho difeso la mia autonomia e questa professione. Credo che sia necessario raccontare l’Italia, la strada, ed è una cosa che oggi fanno principalmente i giornalisti più giovani, quelli che guadagnano 5 euro a pezzo e che non hanno garanzie, ma hanno ancora voglia di sporcarsi le mani. Non lo fanno certo i giornalisti dei salotti televisivi. A quarant’anni potrei fermarmi, ma sento ancora di voler essere un giornalista di strada ed è per questo che sono andato in Ucraina”.

una macchina a trieste

Il percorso che lo ha portato sui fronti più caldi della guerra non è stato semplice. “Lavoravo per Rai 2, facevo reportage. Quando è scoppiata la guerra – racconta – ho subito pensato di andare lì, sul campo. Mi sono fermato al confine e da Roma mi è stato ordinato di non entrare nel paese, altrimenti sarei stato licenziato. Ho rivendicato la mia posizione di freelance, ho deciso di passare il confine e ho chiuso i rapporti con Rai 2”.

L’idea che aveva in testa era quella di fare reportage in modo autonomo e di cercare poi qualcuno per la messa in onda. Era solo, non aveva organizzato niente, aveva affittato una macchina a Trieste e aveva con sé solo il telefonino, che poi ha dovuto sostituire in Romania. Poco dopo aver varcato il confine, si è diretto a Odessa e ha iniziato la trafila per avere un accredito militare. Lì ha lavorato fianco a fianco con due giornalisti del New York Times: “Per me è stata una fortuna, loro erano molto organizzati e sapevano come muoversi”. Poi sono arrivate le collaborazioni con La7, con il Tg1, con Porta a Porta e con alcuni programmi Mediaset. “Tutti, tranne Rai2 insomma”, dice ridendo.

200mila vanno via

Il tono torna serio quando inizia a raccontare ciò che si è trovato davanti viaggiando per l’Ucraina: “L’idea arrogante che mi ero fatto della guerra, la convinzione di avere esperienza a sufficienza per gestire quella situazione, è scomparsa presto. Mi sono reso subito conto che era una guerra diversa da quella in Libia, dove pure sono stato. In Ucraina, le vittime non sono solo miliziani, ma in buona parte civili. Sono stato uno dei primi a raccontare gli scontri da Mykolaiv, a sud dell’Ucraina, quando ancora nessuno sapeva che esistesse. C’era la neve, faceva freddo, era uno scenario apocalittico. In due settimane ho visto 200mila persone andare via: i russi erano a 500 metri dalla città, era un assedio medievale e cominciava a mancare tutto”. Così sono arrivati i primi shock per i bombardamenti e la situazione è diventata “sempre più pesante psicologicamente”.

Con il ritiro da Kiev e la concentrazione delle forze militari russe a sud e a est dell’Ucraina il corso della guerra è cambiato. Piervincenzi è stato raggiunto da altri giornalisti italiani: “Abbiamo fatto gruppo ed è stata una bella esperienza di condivisione”, ricorda. Il suo secondo mese in guerra lo ha trascorso soprattutto in Donbass: “Lì la situazione è diventata davvero dura, ho deciso di accettare un alto tasso di rischio. Siamo stati bersagliati tante volte sulla strada, per tre volte hanno bombardato a soli 30 metri dalla mia macchina. Questo mi ha portato quasi all’esaurimento”.

cappotti e ragazze

È in quel momento che Piervincenzi ha capito che era ora di tornare a casa: “Le persone come noi, noi occidentali che non siamo abituati alla guerra, quando si trovano sotto un bombardamento non reagiscono bene. Un combattente esperto sa cosa fare, è abituato, ha una scorza spessa. Ma quando mi sono ritrovato bloccato in un cunicolo mentre ci bombardavano sopra alla testa… Io stavo zitto in un angolo e fumavo una sigaretta dopo l’altra. Per evitare che reagissi male, i militari mi hanno messo un ragazzo di 23 anni vicino, mi faceva da balia. Aveva le guance nere per quanti colpi aveva sparato quel pomeriggio. Mi ha preparato la zuppa calda, mi ha dato delle bevande energetiche, mi ha detto quando dovevo indossare l’elmetto e quando potevo toglierlo, quando potevo rilassarmi e quando non dovevo farlo. Io ho 40 anni, pensavo di farcela, ma non è stato così. Non avevo gli strumenti. È una situazione psicologicamente logorante per noi. Ho visto anche i russi, ho visto come vivevano, ho visto il loro imbarbarimento. Li ho visti entrare nelle case per rubare i cappotti, cercare qualcosa di caldo, qualcosa da mangiare, le medicine, speravano anche di trovare qualche ragazza nascosta”.

come cento anni fa

Il ritorno in Italia non è stato facile. Ha dovuto fare i conti con quello che ha vissuto, ma raccontare – dice – lo aiuta a metabolizzare. Nonostante le difficoltà vissute pensa di ripartire presto, perché “tutti i giornalisti aspettano di raccontare una grande storia e questa guerra è la grande storia della mia generazione”.

Come si parla di una guerra?

“Quando sei in questi contesti il mestiere si riduce alle sue basi, torni a essere un cronista come quelli di 100 anni fa. Vai sul campo e riporti quello che vedi. I numeri delle truppe, dei civili coinvolti, degli edifici distrutti o dei morti sono quelli che riesci a contare tu. Le testimonianze quelle che riesci a raccogliere tu sulla strada, dentro una trincea, nello scantinato di un palazzo attrezzato a rifugio.”

(nella foto, Daniele Piervincenzi)

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