di MICHELE MEZZA

Se la carica di Balaklava del colonnello Cardigan nel 1855 vide la prima corrispondenza intercontinentale, ad opera dell’inviato del Times Willian Howard Russel, e la prima guerra del Golfo nel 1991 è ricordata per l’ombrellino elettronico che permise a Peter Arnett di inviare la sua corrispondenza dei bombardamenti di Bagdad in diretta dall’Hotel Rashid, oggi il martirio delle città ucraine viene documentato dal tremolio di immagini verticali riprese da telefonini, che scandagliano il teatro di guerra, senza consentire a nessuno di negare la terribile realtà.

La telecamera dello smartphone è la nuova Lettera 22 dei mitici inviati al fronte del secolo scorso: ogni giornalista prima, durante e dopo aver inviato il suo resoconto, impreziosisce la sua corrispondenza con un corredo di immagini che prolungano, oggettivandola, la propria testimonianza. 

dilettanti e professionisti

La novità è che i giornalisti usano ormai correntemente questo standard di resoconto, perché già da tempo le cronache del mondo vengono comunicate mediante i telefonini di utenti, lettori e testimoni. 

Sono i dilettanti che hanno imposto ai professionisti il nuovo modello tecnologico.

Quelle inquadrature apparentemente ballonzolanti e dilettantesche non sono il segno di un’emergenza che non consente l’applicazione degli standard professionali tradizionali, con le troupe pesanti, ma introducono  una nuova grammatica della comunicazione, che si articola in base a due categorie del tutto innovative per i modelli di giornalismo canonico: la portabilità della connessione e l’accessibilità di ogni singolo possessore di un tale device al sistema dell’informazione professionale.

relazioni e competenze

Ragionando sulla rivoluzione della miniaturizzazione dei sistemi di calcolo, già alla fine degli anni ‘50, Adriano Olivetti aveva introdotto il concetto di indifferenza professionale nell’uso di sistemi che apparivano così sofisticati. Oggi, dopo 60 anni, possiamo constatare come la sovrapposizione di miniaturizzazione e portabilità ha realizzato la famosa previsione di Walter Benjamin nel suo celeberrimo saggio su “L’Opera d’arte all’epoca della sua riproducibilità tecnica”: riflettendo sulle lettere al direttore che i giornali cominciavano a pubblicare, prevedeva che “ogni lettore si siederà accanto al direttore”.

Il telefonino è ormai quella protesi della nostra vita che integra la memoria, sostiene le competenze, indirizza le relazioni. È anche lo strumento primario di ogni strategia economica e sociale, che imprese, associazioni, partiti o pubblica amministrazione adottano per stringere micro patti di collaborazione con ognuno dei propri infiniti utenti. Ma più che l’hardware vale, come sempre, il software, che nel nostro caso non è il sistema operativo del telefonino, ma proprio il pollice che lo manovra e ispira.

pitture sui vasi

Michel Serres, uno dei più lucidi e disincantati filosofi della modernità, recentemente scomparso, parlava -come nuovo simbolo del nostro tempo- di una mitica “Pollicina”, la musa della nuova comunicazione mobile. Protagonista di questa svolta è appunto, spiega il filosofo francese, il pollice che, nella sua giustapposizione alle altre quattro dita, distingue la specie umana dai suoi più prossimi mammiferi, perché risponde, a differenza che in altre specie, ad un lobo del nostro cervello diverso da quello che governa il resto della mano. Proprio questa alternanza neurale determina il ritmo e la modalità di gestione delle cose con la mano prensile. 

Questa alternanza appare come nuova antropologia della comunicazione, che vede lo scroll dei contenuti sullo schermo in verticale dello smartphone, mediante appunto il pollice, come l’equivalente delle prime pitture sui vasi greci dello scriba con lo stilo. 

La disposizione in orizzontale, su una superficie piana della sequenza di parole fu allora – stiamo parlando di una lunga incubazione della scrittura che arriva fino al IV secolo A.C. – la premessa di una razionalità metodica del nostro ragionare. Se, scrive ancora Michel Serres, non si fossero viste le parole concatenarsi nelle righe che poi formavano le pagine, non avremmo avuto i trattati né nella forma né tanto meno nel contenuto.

gattini e balletti

In questi ultimi 20 anni abbiamo coltivato, quasi a nostra insaputa, questo nuovo format del racconto, che tramite smartphone, ci rende sempre attivi, sempre connessi, sempre pronti a trasformare il nostro colpo d’occhio in un flusso di immagini trasmettibile e condivisibile.

Dai gattini di Buzzfeed, fino ai balletti di Tik Tok siamo oggi arrivati alla documentazione perenne del flusso della storia per mano di chiunque.

In questo passaggio si consuma definitivamente la separazione professionale del circuito dell’informazione.

In questi giorni stiamo assistendo innanzitutto ad una rottura di ogni modello di appartenenza redazionale, con i direttori di Tg e quotidiani che fanno a gara ad arruolare, giorno per giorno, come i caporali di un tempo sulla piazza dei paesi del sud, volontari e free lance che arricchiscono il palinsesto del momento con flussi inesauribili di immagini. 

scenario spettrale

Successivamente, abbiamo visto gli inviati e i corrispondenti selezionare in loco, sul teatro di guerra i possibili fornitori di video dai luoghi più inaccessibili e pericolosi, per dotarsi di un corredo significativo per ogni singola giornata. 

Ora il passaggio successivo, lo stiamo notando proprio in questa fase di ulteriore drammatizzazione, con la morsa russa che si sta chiudendo attorno alle città di tutto il paese invaso, con un flusso libero di immagini che vengono raccolte direttamente da inviati e collaboratori nelle strade delle città assediate. 

Il valore aggiunto dell’informazione dalla notizia o dalla sua contestualizzazione si sposta esclusivamente sulla suggestione delle immagini che mostrano dalle varie città lo spettrale e impressionante scenario di strade colme di macerie e abitanti che come fantasmi si muovono alla ricerca di cibo.

collaboratore occasionale

Ci sono i giornalisti, i coraggiosi inviati di testate come Il Corriere della Sera e la Repubblica, ma anche di agenzie e di siti web, dall’Ansa a Fanpage, che si trovano sul posto rocambolescamente, o lo stesso Tg1 che venerdì si è stupito di poter trasmettere inedite immagini da Kharkiv di un suo occasionale collaboratore arrivato per conto proprio, che si è conquistato la prima pagina dell’ammiraglia della Rai proprio puntando la camera del suo telefonino su quartieri martellati dai russi da giorni.

Questa combinazione fra un centro che trasmette e una folla che riprende, fra cui persino degli inviati professionisti, mi pare che ratifichi un salto di genere nell’organizzazione del mestiere, che ci proietta ad una nuova geometria organizzativa in cui le testate, televisive ma anche cartacee per la parte web, diventino sempre più un hub che rumina flussi continui di immagini, saltuariamente commentate e giustificate, ma il cui pregio è proprio l’immediatezza, l’impressione, la simultaneità con gli eventi.

Potremmo dire che in questo modo le redazioni diventano sistema social, proprio come le piattaforme che stanno utilizzando, che catturano e connettono i singoli punti di una gigantesca rete in cui ogni utente o lettore si trova ad essere sempre e comunque anche produttore, stressando ogni forma di mediazione in un ruolo puramente di validazione della velocità della striscia delle immagini.

Il dopo guerra ci dirà quanto di questa mediamorfosi diventerà modello professionale consolidato.

 

3 Commenti

  1. Sempre tempestive ed efficaci le annotazioni di Michele Serra: spingono a sapere, riflettere e diventare più consapevoli anche nelle proprie valutazioni ed azioni.

  2. HA ragione, admin: l’articolo è di Michele Mezza, a cui devo chiedere doppiamente scusa perché è anche un caro amico. Certamente Michele Mezza non sarà contrariato dalla mia involontaria sostituzione del cognome<

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