di GIANNI GIOVANNETTI

Quando Fassino, allora segretario dei Democratici di Sinistra, nella prima metà degli anni ’90, mi propose di fare il suo portavoce, io ero inviato al Messaggero. Ci misi tre mesi per decidermi, alla fine accettai e stavo per firmare la mia lettera di dimissioni dopo 25 anni di Messaggero. Mi dissero tutti che ero pazzo, che non dovevo mollare un posto così, che dovevo conservarmi il paracadute. Di esempi del genere, anche nel mio giornale, ce n’erano a iosa… Ma passati i primi 6 mesi di aspettativa, ruppi ogni indugio: non ce la facevo a pensare di tenere un piede in due staffe, perché con quell’altro piede avevo fatto un “passo” che mi portava in un altro, e assai diverso, campo da gioco. Quelle due righe che scrissi al mio editore (e confesso che furono righe sofferte) non le feci leggere a nessuno, e firmai. Insomma il “dopo” non è stato facile, ma l’etica ha dei prezzi per essere poi apprezzata fino in fondo. E così è stato.

tema mormorato

Racconto questo dopo la lettura, su Professione Reporter, del pezzo di Fabio Martini “Dopo la politica non si torna indietro: dovrebbe valere anche per i giornalisti”. Fabio Martini, del quale ho sempre ammirato uno stile di forma e di sostanza assai rari nel nostro panorama, ha fatto benissimo a riproporre un tema sul quale si è sempre mormorato, ma che nessuno ha mai messo concretamente e lealmente sul tavolo.

Lungi da me voler indicare modelli di comportamento e tantomeno invocare normative cogenti. Certo è che l’esercizio autonomo e autorevole di questa professione, e dunque il ruolo di portavoce (perdonate il bisticcio semantico) dell’opinione pubblica, non può prescindere dall’apparenza di quello che si è e quello che si pensa. Se, dunque, da portavoce dell’opinione pubblica si sceglie con disinvoltura persino un’andata e ritorno, come “portavoce” di una parte, autorevolezza, credibilità e indipendenza ne escono gravemente e fatalmente compromessi. Lo dico a ragion veduta, nel senso che all’inizio del mio percorso politico-istituzionale credevo sinceramente di poter proteggere la mia specificità professionale: ero stato giornalista e continuavo ad esserlo nel mio nuovo ruolo. Ma poi mi sono dovuto ricredere,  perché nel momento in cui raccontavo le “verità” che ero stato chiamato a raccontare, in quel momento stesso e malgrado i miei titanici sforzi di correttezza, lealtà, terzietà informativa, io non ero fino in fondo libero di poterne rispondere in prima persona.

impossibilità, inopportunità

E se volete, ci sono stati due episodi che mi hanno definitivamente convinto dell’impossibilità/inopportunità di un ritorno indietro: il primo fu uno scazzo tremendo con un principe dei salotti televisivi, allorquando l’ospitata di Fassino veniva contropesata non solo dalla compresenza di un oppositore politico, ma anche dal numero bilanciato di giornalisti pro o contro, insomma di giornalisti “d’area”. Sarò stato, e sono ancora, un romantico del mio mestiere, ma mi hanno sempre insegnato che si possono avere le proprie idee, ma quando si raccontano i fatti, in nome e per conto dei tuoi lettori, quelle idee bisogna mettersela in tasca e lì lasciarle. Fu allora che capii meglio la mia scelta delle dimissioni: pensate se fossi stato in seguito invitato a qualche talk come “giornalista d’area” e non poter tuttavia sfanculare chi ingabbiava la mia professione, quella del famoso Primo Emendamento della costituzione americana, dentro un ruolo di parte e/o persino d’attaché.

una nuova vita

L’altro episodio si riferisce all’incontro con il mio autorevole editore dell’epoca, che mi mandò a chiamare (mai incontrato prima di allora) quando resi pubblica la mia nuova vita nei Ds di D’Alema e Fassino. In sintesi il messaggio che mi consegnò era che il suo giornale era orgoglioso di quella mia nomina, e che quando avrei deciso di tornare era pronto ad accogliermi nuovamente a braccia aperte… Quelle parole, lo confesso senza offesa per nessuno, mi giunsero con un suono vagamente sinistro.

Inutile dirvi che anche quella circostanza pesò non poco sulla convinzione di scappare a gambe levate dalla eventualità di un ritorno.

Aggiungo solo che credo non debba essere necessaria una norma regolamentatrice di certe “porte girevoli” e spero di aver contribuito alla necessità piuttosto di un po’ più di buon senso. Seriamente e severamente gestito.

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