di VITTORIO ROIDI

L’esperienza insegna, si dice, ma cosa abbiano imparato dalla tragedia di Vermicino? Cosa è cambiato? Oggi riusciremmo a salvare un bambino caduto in una buca profonda 30 metri alla periferia di Roma? Si assisterebbe ancora al terribile spettacolo di migliaia di persone che si precipitano a vedere cosa succede, mentre la televisione di Stato trasmette a ruota libera l’agonia di un ragazzino e le grida disperate di sua madre?

Sono passati 40 anni dalla morte di Alfredino Rampi. Ad ogni scadenza, il 10 giugno, ricompaiono soprattutto due domande: una riguarda la macchina dei soccorsi, un’altra il comportamento dei mass media.

magri e coraggiosi

Nel 1981, i vigili del fuoco non erano attrezzati. Accettarono volontari pronti a calarsi giù, purché fossero magri e coraggiosi. Provarono a forare il terreno per scavare canali che consentissero di raggiungere in altro modo il bambino. Tutto inutile. L’Italia aveva il fiato sospeso. Ci vollero 28 giorni per tirare quel corpo senza vita, immerso nel fango. Oggi abbiamo la Protezione civile, forse un Bertolaso o un Curcio, al posto di quel comandante dei pompieri, avrebbero i mezzi e gli uomini per risolvere il problema. Vogliamo crederlo.

E la tv del dolore? I telegiornali della Rai andarono a tutto spiano. “Io feci il primo collegamento alle 13,30 – racconta Piero Badaloni, uno dei giornalisti storici del Tg1 – ma il primo a collegarsi era stato Maurizio Vallone, del Tg2”. Poi la valanga si ingrossò. Sandro Pertini arrivò sul posto per portare la sua solidarietà. “Sbagliò – dura la spiegazione di Bruno Vespa – per la sua voglia di stare sempre in mezzo alla folla”. Il presidente era convinto, così gli avevano detto, che Alfredino di lì a poco sarebbe stato salvato. Dovette tornare al Colle addolorato e indispettito e forse ammise che la sua presenza aveva ingigantito il dramma e lo aveva trasformato in spettacolo.

milioni di ascoltatori

Quella notte la Rai calcolò 25-28 milioni di ascoltatori. I telegiornali e i giornali radio non si fermarono più. I quotidiani stamparono pagine e pagine.

Si fece un uso smodato del mezzo televisivo. “Io andavo avanti nella trasmissione – dice Badaloni – ma erano altri a decidere”. A quell’epoca il Tg1 era diretto da Emilio Fede (ad interim, perché il nome di Franco Colombo era apparso negli elenchi di Licio Gelli), mentre sulla poltrona del Tg2 sedeva Ugo Zatterin. Le responsabilità erano chiare. Come è possibile che milioni di persone abbiano potuto ascoltare i pianti del bambino, attraverso il microfono calato nel pozzo dai vigili del fuoco che cercavano di farlo parlare con la madre? Che giornalismo era mai quello che faceva strame della dignità e del dolore di un essere umano?  

Al settimo piano di viale Mazzini Sergio Zavoli – a quell’epoca presidente – cercò di evitare che quella notte i due tg gareggiassero uno accanto all’altro. E si finì per andare a reti unificate. Tutti pensavano, come Pertini, che Alfredino sarebbe uscito vivo da quel buco nero. Non fu così e la televisione, che aveva messo in campo i giornalisti migliori e aveva fatto il massimo sforzo, finì per scrivere una delle sue pagine meno gloriose.

febbre dell’audience

E’ la febbre dell’audience che fa ammalare l’informazione. Dopo 40 anni. Forse mamma Rai non cadrebbe nello stesso errore. Ma lasciano interdetti il cinismo e la fredda determinazione con cui, ad esempio, ad ogni ora del giorno, alcuni programmi (chissà perché non guidati da giornalisti e dunque ispirati da diversi valori e principi) seguono le poco chiare novità sulla scomparsa di Denise Pipitone; o spingono i propri inviati lì dove si cerca il corpo di una ragazza pakistana forse uccisa dalla sua stessa famiglia. A tutte le ore, tutti i giorni, in attesa di una svolta che non arriva e sapendo che la conclusione della storia difficilmente sarà positiva.

Informare per far conoscere i fatti, nel rispetto dell’umanità e delle persone, o ricerca solo dell’ascolto? Spesso non si vedono limiti, si scorge una smania ingiustificata. 

Come se la vicenda di Alfredino non avesse insegnato nulla.

1 commento

  1. Dott. Roidi, questo suo intervento, su una vicenda che ha segnato in modo indelebile la storia dell’informazione nazionale, è da incorniciare e condividere in toto. Oggi in particolare, con l’avvento sempre più invasivo dei social, è arrivato il momento di agire per incidere su una nuova cultura dell’informazione, per riformarla nella deontologia, ma sopratutto per richiamare (e obbligare) tutti ad una responsabilità etica, rispettosa delle persone, in particolare delle più deboli, come i bambini e gli adolescenti.
    P.S. Complimenti per il chiaro intervento, di alto spessore culturale ed etico, come sempre. Spero di leggerne altri, ce n’è assoluto bisogno.

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