di ROBERTO SEGHETTI

Proposte di tagli, grida di allarme, appelli per la salvezza, ricette miracolistiche dove tutti si salvano senza perdere nemmeno una penna: in questi mesi si è sentito tutto e il contrario di tutto sulla sorte dell’Inpgi, l’istituto di previdenza dei giornalisti. 

Purtroppo, il modo in cui si sta svolgendo il dibattito sui problemi e sulle eventuali soluzioni non consente di orientarsi con un po’ di chiarezza, considerato il polverone sollevato dallo scontro al calor bianco tra opposte fazioni (purtroppo, anche noi siamo figli della realtà che raccontiamo). 

Vale allora la pena di fare il punto sui fatti. Certo, partire dai dati non semplifica le cose: la situazione è complicata e non esiste una ricetta semplice che risolve tutto con un colpo di magia. Ma tentare di uscire per un momento dallo scontro tra le diverse posizioni forse può aiutare ad avere le idee più chiare. 

  1. Non vi sono dubbi sul fatto che alla base della crisi di bilancio dell’Inpgi vi sia un problema strutturale che riguarda il rapporto tra il numero dei giornalisti attivi e che contribuiscono con i propri versamenti a rimpinguare le casse dell’istituto e il numero dei pensionati e dei superstiti che incassano le pensioni. Grosso modo siamo 14 a 10, un rapporto che non può garantire equilibrio tra entrare e uscite. 
  2. Non vi sono dubbi sul fatto che le vecchie pensioni non solo sono state calcolate con le vecchie norme più favorevoli, ma riguardavano anche una massa di giornalisti che hanno svolto la propria professione in un momento più fortunato dal punto di vista retributivo. I giovani versano contributi meno pesanti, perché hanno in media retribuzioni più contenute; le pensioni sono state calcolate, secondo le normative dell’epoca, con il metodo retributivo sugli ultimi 5 anni, sugli ultimi dieci, su tutta la vita lavorativa, con un sistema misto retributivo- contributivo e solo dalla riforma del 2017 ci siamo avvicinati al sistema Inps. 
  3. Le uscite dalla professione sono state per larga parte dovute a prepensionamento. Qui, fin dalla fine degli anni Dieci del secolo vi è un parziale contributo dello Stato, ma l’uscita anticipata ha imposto in molti casi il supporto dell’Inpgi, oltre alla perdita di molti anni di contributi a venire e l’immediato aumento di spesa per esborsi da pensioni: per i giornalisti il prepensionamento può scattare oggi a 62 anni (prima era a 58), con buona pace della legge Fornero che secondo gli editori, tutti grandi imprenditori, va benissimo per tutti gli altri lavoratori dipendenti italiani. Questo, senza contare che dopo la modifica della legge 416 da parte dell’allora ministro Sacconi non c’è stato più bisogno che una testata fosse in crisi perché i ministeri vigilanti, a cominciare dal ministero del Lavoro, concedessero riduzioni di organico anche con prepensionamenti. 
  4. Fin dalla legge Rubinacci del 1951 (mai abolita) l’Inpgi è sostitutivo dell’Inps, quindi svolge la funzione pubblica sia per quanto riguarda le pensioni che per quanto riguarda l’assistenza. Un compito non secondario, soprattutto dal momento in cui è scoppiata la crisi dell’editoria. Basti un dato a ricordarlo (fonte relazione del presidente al bilancio preventivo): solo negli ultimi 20 anni l’Inpgi ha speso 500 milioni in ammortizzatori sociali (senza contare il costo dei contributi figurativi, a cominciare da quelli relativi alle prestazioni di ammortizzazione sociale). Il 2020 e la pandemia stanno facendo il resto: “Ad oggi – si legge nella relazione del presidente Inpgi al bilancio preventivo – registriamo oltre 20 accordi per applicazione della Cigs in deroga con causale Covid per un totale di 1500 giornalisti interessati. Nei prossimi mesi inoltre vedremo gli effetti del rifinanziamento dei prepensionamenti che potrebbero comportare l’uscita dalla contribuzione attiva per 140 giornalisti nel 2020 e 190 nel 2021”. 
  5. Tutto questo ha progressivamente eroso l’equilibrio di bilancio tra entrate e uscite. Non è una novità. Fin dagli anni Duemila l’amministrazione dell’Inpgi ha deciso a ripetizione riforme di sistema per ridurre i sistemi di calcolo e di favore fino ad allora vigenti e tentare di tenere sotto controllo la spesa per e aumentare le entrate. L’ultima riforma risale al 2017 e ha di fatto equiparato, tranne qualche piccolo dettaglio che comprende l’età, i nostri trattamenti a quelli Inps. Secondo gli attuari, nel volgere di qualche anno (non uno o due ovviamente) questa riforma dovrebbe riportare i conti in equilibrio. 
  6. Il problema riguarda dunque come arrivare al momento in cui la riforma del 2017 sarà a regime senza restare a secco. Il che non è semplice, considerata l’entità dello sbilanciamento e la lentezza delle decisioni per farvi fronte. Tutti possono vedere i dati di bilancio sul sito dell’Inpgi (di seguito la tabella del preventivo 2021 e dell’assestamento 2020). Quel che colpisce naturalmente è ancora di più la progressione: del consuntivo negli ultimi anni: -100,6 milioni nel 2017; -161,3 nel 2018; -171,3 nel 2019; – 253,3 nel 2020. Il preventivo del 2021 indica – 225,2 milioni di euro. 
Preventivo 2021 Assestamento 2020 differenze
GESTIONE PREVIDENZIALE
RICAVI 372.033.100 370.937.100 1.096.000
COSTI 576.600.600 568.015.700 8.584.900
RISULTATO GEST.PREVIDENZIALE -204.567.500 -197.078.600 -7.488.900
GESTIONE PATRIMONIALE
PROVENTI 4.244.350 4.718.900 -474.550
ONERI 887.500 946.500 -59.000
RISULTATO GEST.PATRIMONIALE 3.356.850 3.772.400 -415.550
COSTI DI STRUTTURA 24.432.000 24.450.500 -18.500
ALTRI PROVENTI ED ONERI 6.660.500 6.553.000 107.500
SVALUTAZ.E RETTIF.DI VALORE ATTIV.FINANZIARIE -5.000.000 -16.100.000 11.100.000
IMPOSTE DELL’ESERCIZIO 1.270.000 26.086.000 -24.816.000
RISULTATO ECONOMICO -225.252.150 -253.389.700 28.137.550
  1. Di fronte a questa situazione, i ministeri vigilanti (lavoro e Economia) nel 2019 hanno posto, come da mandato di vigilante, il problema del commissariamento dell’istituto. Che significa commissariamento? Significa che il governo avrebbe dovuto trovare la soluzione per riportare il bilancio in equilibrio o con tagli delle prestazioni e aumento dei contributi o con il trasferimento di tutto all’Inps, con conseguenti provvedimenti (revisione dei trattamenti per i giornalisti? Revisioni delle norme per le quali l’editore può aprire uno stato di crisi e chiedere di prepensionare giornalisti di 62 anni?). Una bomba da ogni punto di vista: sociale, economico, giuridico, politico. Da qui la decisione di aprire un negoziato con i giornalisti e gli editori (e questi sì che contano) concluso con una decisione poi trasformata in legge: congelamento del commissariamento, invito all’Inpgi a prendere provvedimenti ulteriori per fare la sua parte e allargamento della platea dei contribuenti all’Inpgi di alcune categorie che oggi versano all’Inps, compresa quella dei comunicatori (in tutto circa 15 mila persone. Il governo ha anche previsto di indennizzare l’Inps per alcuni anni con 150 milioni di euro l’anno)
  2. Sarebbe bastato questo a risolvere il problema dello sbilancio dell’Inpgi, fermo restando che per i comunicatori non cambierebbe nulla (stessi contributi, stesse prestazioni)? In sé e per sé no. Ma i dati attuariali dicono che potrebbe essere un volano capace di consentire, senza finire a secco, di agganciare il momento in cui le misure prese con la riforma del 2017 avranno prodotto a pieno i propri risultati. Una specie di ponte. Poco prima di quella decisione, il ministero del Lavoro ha anche emanato una circolare, rimasta nei fatti, lettera morta, sulla necessità di comprovare la crisi per l’apertura di nuove fasi di prepensionamento, per il quale sono state anche strette diverse viti, a cominciare dalla necessità di fare un numero maggiore di assunzioni in proporzione alle uscite (dal 2009 erano 1 su tre, ora sono 1 su due, ma oggi l’assunzione non necessariamente deve essere di un giornalista).
  3. Come al solito, si è passati da un rinvio all’altro, fino all’ultimo che ha fissato la data del commissariamento a metà 2021, senza che sia stata presa la decisione di estendere la platea dei contribuenti ai comunicatori, i quali nel frattempo hanno protestato e manifestato una certa contrarietà rispetto a questo spostamento.
  4. Ora molti colleghi cominciano a temere per la propria pensione. Ci sono davvero rischi? Considerati i dati relativi al deficit annuale e l’entità del patrimonio rimasto, abbiamo davanti altri 4 o 5 anni. Resta però il problema di trovare in fretta una soluzione. 
  5. L’Inpgi, nel tentativo di forzare la decisione sui comunicatori annunciata e mai smentita dal governo (la legge che lo prevede è ancora lì) ha deciso una serie di tagli. Diciamo ha voluto dimostrare di voler fare la propria parte. Sono 5 le aree di intervento: l’aumento dell’1 per cento per 5 anni della contribuzione previdenziale versata dai giornalisti attivi (pari a un’entrata di 10 milioni l’anno) e un contributo straordinario sempre dell’1 per cento per i pensionati, uguale per tutti (5,5 milioni l’anno), con eventuale proroga della maggiore trattenuta per i soli colleghi in attività; l’abbassamento del limite di reddito cumulabile con la pensione a 5 mila euro lordi l’anno rispetto agli attuali 22.524,13  (maggiori entrate per 1,5 milioni l’anno); la sospensione delle prestazioni facoltative come l’assegno di superinvalidità (tagli di circa 1 milione l’anno), il ricovero in case di riposo (circa 174 mila euro) e i sussidi (28 mila euro); la reintroduzione degli abbattimenti per le pensioni di anzianità, ma con riferimento alla norma della legge Fornero che permette agli iscritti all’Inps di andare in pensione a qualsiasi età con 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne: i giornalisti dovrebbero, invece, raggiungere comunque i 62 anni e subirebbero una riduzione della pensione dello 0,25 per cento per ogni mese mancante rispetto al requisito Inps. Per esempio, con 40 anni e 5 mesi di contributi, requisito oggi previsto dall’Inpgi, le donne subirebbero un taglio del 4,25 per cento e gli uomini perderebbero il 7,25 per cento dell’assegno (risparmio totale di 255 mila euro nel 2021); la riduzione dei costi di struttura pari al 10 per cento dei compensi degli organi collegiali (amministratori, sindaci e rappresentanti istituzionali, con un taglio di 120 mila euro) e del 5 per cento di tutto il resto (con un risparmio da 1,14 milioni in totale), compresi i soldi riconosciuti alla Fnsi e alle Associazioni regionali di stampa, che ricevono contributi per 2,471 milioni di euro. 
  6. Molti si chiedono se basteranno queste misure. Ma certo che no. Sono una bazzecola rispetto alle necessità. Sono solo un segnale di disponibilità per chiedere al governo di fare presto. Tanto che verranno adottate solo se il governo trasferirà all’Inpgi almeno i comunicatori pubblici. Ma anche così basterà? Ma certo che no: tra le misure ventilate dall’Inpgi e l’eventuale passaggio dei comunicatori pubblici grosso modo il deficit potrebbe migliorare di 50-70 milioni l’anno. Ciò che invece si spera davvero è che venga approvato tutto ciò che è previsto dalla legge (l’intero passaggio dei comunicatori). Lo sperano i giornalisti, ma zitti zitti, lo sperano soprattutto gli editori, che di grandi cambiamenti non vorrebbero proprio sentir parlare in mezzo a una crisi devastante. 
  7. Lo farà il governo? O si arriverà senza alcuna decisione al commissariamento? Ah, saperlo. 
  8. Nel frattempo, però, c’è anche un nutrito gruppo di colleghi che ritiene questa strada troppo tortuosa, difficile, non sufficiente a garantire la salvezza. E di fatto propone di rivendicare la garanzia pubblica. Una raccolta di firme, anche molto prestigiose, ha posto il problema all’attenzione addirittura del presidente della Repubblica, Mattarella. Secondo questa proposta, lo Stato dovrebbe o coprire i costi o portare tutto all’Inps, garantendo le pensioni in essere e i trattamenti futuri (ovviamente con le regole generali, che ormai sono molto simili alle nostre).
  9. Ma sarebbe possibile? Niente è impossibile, se c’è di mezzo una decisione politica. Diciamo subito che né la maggioranza che governa l’Inpgi, né gli editori gradiscono (è chiaro che cambierebbero notevolmente anche le norme per i prepensionamenti e le altre facilitazioni). Inoltre in passato, di fronte all’ipotesi di un trasferimento dell’Inpgi all’Inps, l’allora presidente Boeri dichiarò che questo sarebbe potuto avvenire solo a costo di ricalcolare le pensioni in essere. Adesso c’è un altro presidente. E un altro governo. Vediamo allora di che cosa si tratta e quali appigli potrebbero essere sfruttati. Dal punto di vista giuridico c’è la legge Rubinacci del 1951 (mai abolita) che definisce il ruolo sostitutivo rispetto all’Ago (assicurazione generale obbligatoria che fa capo all’Inps). Ruolo richiamato anche da alcune sentenze della Cassazione. Un appiglietto causidico, insomma, ma non proprio un nulla. Basterebbe per procedere? Forse sì, forse no. Dipende dalla volontà politica. Viene richiamato il caso dei dirigenti d’azienda, salvati in tempi remoti senza colpo ferire. Vero. Ma è anche vero che viviamo in un altro mondo rispetto ad allora. Pensate, tanto per fare un esempio di quanto sia spinoso questo tema, che d’un sol colpo, dopo aver limato i trattamenti dei parlamentari e in mezzo ad una fase in cui decine di migliaia di persone stringono drammaticamente la cinghia, il governo, qualunque esso sia, possa salvare una categoria considerata privilegiata (a torto o a ragione) senza cambiare nulla? Personalmente ne sarei felice (dico come pensionato), ma credo che realisticamente sia un po’ improbabile.      
  10. E allora? E allora non ci sono soluzioni semplici. E bisognerebbe smettere di battibeccare come polli di Renzo. Nel caso in cui si procedesse secondo le proposte della maggioranza dell’Inpgi (e degli editori), si imboccherebbe un difficilissimo e tortuoso cammino per reggere alcuni anni fino ad agganciare i risultati della riforma del 2017, sempre che alla fine passino tutti i comunicatori e che il governo si decida a obbligare tutte le amministrazioni pubbliche a registrare presso l’Inpgi le migliaia di giornalisti che lavorano negli uffici stampa pubblici, come previsto dalla legge 150. È una strada sicura? No. Nessuno può dire oggi che vi si riuscirà con certezza e garantire che non ci si trovi poi nella necessità di fare ulteriori e più pesanti sacrifici anche per i pensionati in essere. È un percorso. Se invece si arriverà all’apertura di una fase di salvataggio vera e propria, o perché scatta il commissariamento o perché il governo, pur di non affrontare le ire di giornalisti e editori, decide di salvare capra e cavoli accollandosi un costo ulteriore in una fase già caratterizzata da spesa pubblica e debito in forte crescita, nessuno può garantire che questo avvenga senza che le nostre ali perdano diverse penne (anche in questo caso parlo delle pensioni in essere) nel momento del passaggio salvifico. 

Naturalmente, spero di essere smentito dai fatti. 

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