di LUCIANA BORSATTI

Ma quanto è difficile scrivere di Iran. Nel pieno dell’ennesima crisi tra Teheran e Washington, con nuove tensioni militari nel Golfo e la brusca accelerazione di Teheran sul fronte dell’arricchimento dell’uranio, da giornalisti è ancora più difficile tenere i nervi saldi e non farsi prendere la mano nei titoli e nei resoconti dei fatti. Un rischio tanto più reale per un tema così controverso quale è appunto l’Iran, un Paese isolato nel suo confronto geopolitico con l’Occidente e rispetto al quale sono spesso le letture statunitensi e israeliane a prevalere nel mainstream, mentre quelle di Teheran di rado sono considerate e trasmesse compiutamente al lettore. 

Naturalmente non si tratta di schierarsi con l’una o con l’altra parte di questo decennale conflitto geopolitico per il controllo delle regione, in cui non ci sono agnellini ma al massimo lupi più piccoli e più grandi. Ma solo di riconoscere che in questo conflitto l’aspetto mediatico è decisivo, e dunque interroga il giornalista sui risvolti deontologici del suo lavoro. Trasmettere correttamente le ragioni di entrambe le parti rientra infatti tra i doveri del buon giornalismo. Ha a che fare con la completezza e l’imparzialità della notizia, due requisiti senza i quali non si fa informazione, ma ci si schiera, più o meno consapevolmente, per inclinazione ideologica, ignoranza, superficialità o semplice conformismo.

paese controllato

Prendiamo il caso della ‘minaccia’ del nucleare iraniano: ma fino a che punto la questione esiste davvero, al di là dei quotidiani allarmi  di chi grida al pericolo della “bomba” di Teheran? 

Veniamo ai fatti.  Il 2 dicembre 2015, pochi mesi dopo la conclusione dell’accordo sul nucleare iraniano di Vienna che gli Usa di Trump hanno unilateralmente abbandonato meno di tre anni dopo, l’Agenzia Internazionale per l’energia atomica (Aiea) mise definitivamente la parola fine alla questione della possibile dimensione militare (PMD, Possible Military Dimension) del programma nucleare iraniano. Nel suo “Final Assessment on Past and Present Outstanding Issues regarding Iran’s Nuclear Programme” l’Agenzia Onu stabiliva infatti che “una serie di attività rilevanti per lo sviluppo di un dispositivo esplosivo nucleare furono condotte in Iran prima della fine del 2003 come sforzo coordinato”,  e che alcune continuarono fino al 2009: ma anche che tali attività “non andarono oltre gli studi scientifici e di fattibilità” . E da allora l’Agenzia non aveva trovato “indicazioni credibili” in senso contrario. Proprio grazie al Jcpoa, l’Iran divenne il Paese più controllato al mondo nelle sue attività nucleari, e gli ispettori dell’Aiea hanno avuto e hanno tuttora pieno accesso a tutti i siti previsti dall’accordo. Tutto quanto le intelligence soprattutto israeliane hanno fatto trapelare dopo, con potenti e talvolta scenografiche offensive mediatiche, fa riferimento a quel passato antecedente al 2009. 

accordi violati

Certo, ultimamente l’Iran ha violato gli accordi presi con la comunità internazionale nel 2015, fino alla recente decisione di procedere all’arricchimento dell’uranio al 20%: una soglia allarmante benché ancora lontana da quel  90% necessario per un ordigno, e comunque di molto superiore al massimo del 3,65% concesso dal Jcopa, con un parallelo aumento delle scorte di uranio a basso arricchimento. Ma ha cominciato a farlo solo un anno dopo l’uscita degli Usa dal Jcpoa e l’imposizione di una serie di sanzioni senza precedenti e mirate a mettere in ginocchio la sua economia. E lo ha fatto annunciando un processo di disimpegno dal Jcopa graduale e sempre reversibile, con il dichiarato scopo di richiamare l’Europa, paralizzata dalle sanzioni secondarie statunitensi, ad agire con più determinazione per rispettare gli impegni presi con il Jcpoa. Un processo graduale che ha avuto tuttavia due importanti accelerazioni: la prima dopo l’assassinio del generale Qassem Soleimani nell’attacco statunitense del  3 gennaio 2020, la seconda dopo l’uccisione in un attentato di uno dei suoi maggiori scienziati nucleari, Mohsen Fakhrizadeh, il 27 novembre scorso. E’ stato poco dopo questo attentato sul suolo iraniano, attribuito da Teheran a Israele,  che il Parlamento iraniano, ormai in mano alla linea dura dei conservatori, ha varato una legge che ha imposto al governo del moderato Hassan Rouhani (vicino alla fine del suo mandato) di procedere all’arricchimento dell’uranio  al 20%. Ebbene, quante volte da giornalisti sentiamo il dovere di ricordare compiutamente (e non solo con fuggevoli incisi) al lettore questa sequenza temporale dei fatti, essenziale per comprenderne la reale portata? O di consultare la stampa iraniana in lingua inglese, che certo non dà conto del frenetico dibattito politico interno come fa la stampa in persiano, ma che certo svolge la  funzione di portavoce delle istanze di Teheran al mondo esterno? Prendiamo per esempio il Teheran Times del 5 gennaio: in prima pagina si legge che “L’Iran ha intrapreso una nuova politica nucleare mirante a ripristinare un equilibrio di diritti e di obblighi in un accordo sul nucleare che è stato per lungo tempo implementato solo da parte iraniana. Tale politica è volta a persuadere i firmatari europei dell’accordo del 2015 – Francia, Germania e Regno Unito – che le loro scarse prove nel rispettare i propri impegni non sono più accettabili da parte dell’Iran. Dopo anni di pazienza strategica di fronte alle sanzioni Usa, l’Iran ha infine deciso di cambiare lo status quo”,  passando appunto all’arricchimento al 20%. 

Inoltre, prendiamo una recente scheda dell’agenzia Reuters, “Quanto è vicino l’Iran alla produzione di un’arma nucleare?: pur con un titolo che dà appunto per scontata quella che per ora resta  un’ipotesi, cioè un’effettiva volontà di Teheran di dotarsi di un’arma nucleare, il pezzo fa il punto dello questione in modo relativamente bilanciato. Da parte sua il quotidiano israeliano Haaretz ne pubblica il testo integrale aggiungendo la notazione che  il premier israeliano Benjamin Netanyahu “ha detto che la mossa” verso l’arricchimento al 20% “è mirata allo sviluppo di armi nucleari”, cosa che “Israele non avrebbe mai permesso”. 

Ecco, il nodo della questione professionale e deontologica sta proprio qui, in chi dice cosa: ossia cosa dicono Israele e i suoi alleati sull’Iran, quanto sia riconoscibile la paternità di tali posizioni,  e quanto pesino quelle posizioni nella nostra informazione sull’Iran. 

sette miliardi

Molto ci sarebbe ancora da dire, perché l’elenco degli argomenti che quotidianamente pongono al centro delle cronache l’Iran è infinito: dal recente sequestro da parte dei Pasdaran di una nave sudcoreana (Seul, per inciso, trattiene sette miliardi di capitali iraniani nelle proprie banche per effetto delle sanzioni Usa e il governo iraniano stava proprio allora portando a termine una soluzione diplomatica) al sempre urgente e drammatico tema del rispetto dei diritti umani nella Repubblica Islamica. Ma altrettanto ricco sarebbe anche l’elenco di altri argomenti che suggeriscono la necessità di un’informazione più bilanciata. Per esempio, quante volte si ricorda che in Arabia Saudita –  non una repubblica islamica come l’Iran, ma una monarchia assoluta islamica  – non soltanto si uccidono nei consolati e si fanno a pezzi giornalisti come Jamal Khashoggi, ma nel 2019 le esecuzioni (spesso tramite decapitazione) sono state 184, uno dei tassi più alti al mondo, e che secondo Amnesty International è in aumento il ricorso alla pena di morte “come arma politica contro dissidenti della minoranza sciita”? 

Usare un simile approccio comparativo, sia chiaro, non deve servire a minimizzare la portata delle violazioni dei diritti degli iraniani in campi come quelli del giusto processo,  dell’uguaglianza di genere e della libertà di stampa e di espressione, ma aiuta a sostenere il principio che un’informazione veramente tale deve essere completa, non omissiva. E a rivelare anche come alcune campagne per i diritti umani colpiscano solo certi governi e non altri.  

Un’ultima annotazione, in cui alcuni colleghi si riconosceranno: quello dell’Iran è un tema talmente divisivo che inevitabilmente fa sorgere diffidenze e sospetti nei confronti di chi ne scrive. Può così capitare di essere accusati di scrivere articoli “ostili” verso la Repubblica islamica e all’opposto di essere sospettati di essere al servizio della stessa. Due accuse che, paradossalmente, talvolta possono riguardare anche la stessa persona. E che confermano, appunto, quanto sia difficile scrivere di Iran. 

(nella foto di Mehran Falsafi, il “Museo del covo di spionaggio Usa”, a Teheran, ex ambasciata Usa)

1 commento

  1. Un riassunto ricostruttivo dei fatti, fedele e corretto. La correttezza intellettuale, cara Luciana Borsatti, ragione in più se motivata dai doveri professionali, non è un difficile esercizio, ma semplicemente reso difficile dall’inarrestabile macchina della propaganda strumentale. Fregatene e fai tranquillamente il tuo onesto lavoro. E’ vero, l’Iran non ha l’accesso all’opinione pubblica mondiale, ma questo non fa del tuo lavoro un favore all’Iran, bensì un onesto esercizio della tua professione e un servizio utile ai tuoi lettori. Io credo che i giornalisti servili sono invece quelli che mentono e omettano sapendo di mentire e omettere. Buon lavoro e grazie!

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