(A.F.) E se la vicenda Economist-Elkann-Exor-Repubblica-Gedi fosse un’altra da quella raccontata finora? Ci si è chiesti come mai Elkann non abbia garantito ai suoi giornali italiani gli stessi diritti statutari di indipendenza e autonomia vigenti a The Economist. E se nel settimanale inglese avrebbe mai potuto esser pubblicato un articolo come quello apparso su la Repubblica il 17 maggio, a sostegno della richiesta al governo di 6,3 miliardi di euro: “Il prestito di Intesa Sanpaolo a Fca fa da apripista a una nuova formula che aiuterà migliaia di imprese”. 

Elkann è di certo dal 2015 il principale azionista di The Economist, ma lo speciale statuto d’indipendenza e autonomia giornalistica è anche un lascito che il presidente di Fca ha dovuto acquisire con la testata, quale patrimonio inscindibile e non negoziabile. E la storia di come la Repubblica è finita nella pancia di Exor non è che la risultante dei rapporti complicati della ditta a conduzione familiare De Benedetti&sons. 

In realtà, lo scorso 2 dicembre, quando è stato firmato l’accordo per la cessione a Exor, il gruppo editoriale di cui è parte la Repubblica si sarebbe potuto trovare nella stessa condizione statutaria di indipendenza e autonomia di The Economist se solo l’Ingegner Carlo De Benedetti (CdB) avesse avuto la forza, la determinazione e la lungimiranza di portare a termine il progetto della Fondazione che gli era stato suggerito di costituire in tempi non sospetti, quale sistema di garanzie per mettere al riparo la testata di Largo Fochetti da ingerenze di figli, figliastri, pretendenti e inattese cessioni.

la nomina del direttore 

Della costituzione di una Fondazione a tutela dell’indipendenza de la Repubblica si comincia a parlare niente meno che nel 2012-2013, periodo in cui CdB regala ai figli Rodolfo, Marco, Edoardo le quote del suo impero industriale, dopo che nel 2009 lui stesso ha lasciato tutte le cariche delle società del gruppo. E se ne continua a parlare negli anni a venire, senza che l’Ingegnere si risolva a chiudere l’operazione. Anche perché i figli temono che inglobare la testata nella Fondazione possa compromettere la possibilità di vendita futura.

Intorno al 2013 il progetto prevede, sul modello tedesco, un Cda di cui avrebbero dovuto far parte obbligatoriamente rappresentanti della redazione, con la presidenza del Consiglio affidata a un giornalista di lunga esperienza nel gruppo. Candidato naturale, Ezio Mauro, simbolo e volto della continuità editoriale. Al Cda sarebbe spettata anche la nomina del direttore della testata, la cui figura avrebbe dovuto passare prima al vaglio di un Board of Trustees, sul modello Economist. 

Di tutto ciò si discute a lungo senza che accada alcunché. Anzi, CdB a un certo punto scarta proprio l’ipotesi Fondazione, persuaso dal figlio Marco, per convincersi invece della necessità di avviare una discontinuità nella catena di comando del giornale e affidare a un giornalista giovane la sua direzione. Ezio Mauro, del resto, ha già fatto sapere da tempo che alla scadenza dei vent’anni gradirebbe esser avvicendato. Cosicché De Benedetti accarezza l’idea di rifare la stessa operazione fatta nel 1996 sostituendo Scalfari con Mauro.

l’uomo ideale

La scelta, come noto, ricade su Mario Calabresi, l’uomo ideale per proiettare la Repubblica nel XXI secolo, imprimere l’agognata svolta digitale. Calabresi è forte dell’esperienza maturata a New York come corrispondente, prima, e alla direzione de La Stampa poi. Ma nell’arrivare a Repubblica il 15 gennaio, Calabresi liscia proprio l’appuntamento con l’unificazione tra redazione di carta e web, che continua a tenere distinte anche se la fusione è per l’epoca più che matura. Tant’è.

Il tempo corre veloce e, a cavallo tra fine 2017 e inizi 2019, nella famiglia De Benedetti si consuma la frattura tra padre e figli. CdB nel 2012 aveva affidato loro le quote di controllo del gruppo editoriale. Il pretesto alla faida lo offre Scalfari stesso, che – ospite di Floris a Di martedì su La7 – dichiara che, se alle elezioni avesse dovuto scegliere tra Berlusconi e Di Maio, la sua scelta sarebbe caduta sicuramente sul primo. A ruota, De Benedetti rilascia un’intervista al Corriere della Sera per stigmatizzare Scalfari che con le sue dichiarazioni “ha gravemente nuociuto a la Repubblica”. Non basta, dice anche che un giornale “non è solo latte e miele; è carne, è sangue. Può avere curve, ma deve avere anche spigoli”. Apprezza il restyling del giornale (“molto riuscito”), ma contesta la nomina alla condirezione di Tommaso Cerno, l’ex direttore de L’Espresso, in seguito diventato senatore renziano, poi passato al Gruppo Misto e finito opinionista di Libero. Ed è una palese critica all’operato di Calabresi. 

Trascorrono alcuni giorni e il figlio Marco, presidente del Gruppo Gedi che edita il quotidiano, prende le distanze dal padre, intervenendo con una lettera dove mette nero su bianco che le opinioni di CdB “non rispecchiano quelle degli azionisti né dei dirigenti di Gedi”. A sua volta Scalfari va a Raitre da Bianca Berlinguer e di De Benedetti dice: “Non ho più rapporti con lui”. Poi a metà gennaio 2018 l’Ingegnere appare a Otto e mezzo di Lilli Gruber, dà dell’ingrato a Scalfari e critica apertamente la direzione di Calabresi, citando il Don Abbondio del “chi non ha coraggio non se lo può dare”. Scintille. Quindi Scalfari replica a De Benedetti: “Ama Repubblica come quegli ex che provano a sfregiare la donna che hanno amato male e che non amano più”.

stipendi tagliati

A settembre 2018 la famiglia De Benedetti è in pezzi. L’Ingegnere ha anche smesso di parlare con i figli perché ha saputo che hanno avviato una trattativa con Luca Cordero di Montezemolo e il manager Flavio Cattaneo per vendere loro il giornale, il cui asset economico comincia a essere preoccupante. Iniziano pure le trattative per avviare la “solidarietà” in redazione, con un taglio agli stipendi del 15%. Calabresi si spende molto in questa fase con il nuovo amministratore delegato Laura Cioli  (ha preso il posto di Monica Mondardini, passata in Cir), per garantire il successo della “solidarietà”. 

A novembre 2018, però, l’ingegnere convince Mondardini che la storia di Repubblica non può essere svenduta alla coppia Montezemolo-Cattaneo. Così CdB convoca a casa Scalfari un conclave alla vigilia di Natale con i figli, Ezio Mauro e Monica Mondardini, in cui si decide una sorta di moratoria, in base alla quale Rodolfo, Marco, Edoardo s’impegnano a non vendere il giornale e a intraprendere un percorso per individuare un nuovo direttore in grado di invertire la china discendente. Il profilo è quello di Carlo Verdelli, uomo di prodotto, già vice di Paolo Mieli al Corriere della Sera, direttore di 7, fautore del successo di Vanity Fair, poi in Condé Nast, quindi alla guida della Gazzetta dello Sport, già collaboratore di Repubblica, dimessosi dalla Rai di Antonio Campo Dall’Orto che l’aveva chiamato a dirigere l’offerta informativa di viale Mazzini, dopo la bocciatura del suo piano, esperienza che racconta nel libro “Roma non perdona” (Feltrinelli). 

Verdelli viene nominato al vertice di Largo Fochetti il 6 febbraio 2019 per lasciare quattordici mesi più tardi, licenziato da Elkann nello stesso modo in cui Calabresi lo è stato da De Benedetti. E solo alcuni mesi prima, scontento della direzione Calabresi, proprio l’Ingegnere ha buttato là il nome di Molinari quale suo sostituto. Mentre ora che Molinari è insediato da Elkann, ne contesta la legittimità. Una volta arrivato alla guida di Repubblica, per Verdelli cominciano subito, tra aprile e maggio 2019, i giorni più difficili, perché torna in auge l’ipotesi della vendita della testata alla coppia Montezemolo-Cattaneo. CdB se ne disinteressa e salpa per un viaggio di tre mesi in barca, non prima d’aver comunicato a tutti che i figli stanno per vendere il giornale. Ciò mette in fibrillazione il direttore e l’intera redazione. Verdelli riflette sui numeri delle proprie angosce: 352 redattori, copie scese sotto quota 200 mila, pubblicità prosciugata. Ogni giorno una pena. Chiede rassicurazioni, ma Marco De Benedetti nega l’ipotesi della cessione, a lui, al Cdr, alla redazione. Verdelli si convince che in quelle condizioni non ce la può fare a reggere e a risollevare le sorti del quotidiano.

una difficile estate

A questo punto interviene Monica Mondardini, che va da Elkann e gli offre la Repubblica, usando come argomento il fatto che anche La Stampa, la testata cara al nonno Gianni Agnelli, potrebbe finire in pessime mani. John Elkann s’allarma. Comincia la fase di due diligence dell’azienda. È estate piena. Verdelli, nel mezzo d’una riunione di redazione, avvisa tutti che se cambia l’editore cambia anche il direttore. Un minuto dopo si dimetterebbe. Messaggio chiaro che Elkann non dimentica. A ottobre l’operazione Montezemolo-Catteneo è tramontata e subentra l’ipotesi Elkann. CdB rientra dalla lunga gita in mare e, sondati i figli per interposta persona, fa sapere loro che vuole ricomprare il giornale. “Perché no?”, dicono Rodolfo, Marco, Edoardo. Se il prezzo è giusto si può fare. Ma CdB non resiste al gusto della provocazione e spara la cifra impossibile: offre 30 milioni di euro. Un’inezia, se si pensa che Repubblica verrà venduta a Elkann per 120 milioni. I figli di CdB respingono l’offerta. 

Dicembre 2019. Verdelli si agita e va a Milano a colazione da Rodolfo De Benedetti, il quale non lo avvisa che il giorno dopo firmerà la vendita a Elkann. Verdelli lo saprà con tutti gli altri. Neppure un colpo di telefono. Il direttore però non si dimette e s’arrocca. Forza sulla nomina di due nuovi vicedirettori, che doveva avvenire già a dicembre contro la perplessità del direttore generale Scanavino. Alla sostituzione con Molinari mancano appena due mesi.

Dopo tutto questo, per molti aver sentito l’Ingegnere CdB gridare al golpe e parlare di giornali, padroni, libertà di stampa minacciata e nuove iniziative editoriali – domani o dopo – “desta un certo sconcerto”. Perché se è finita com’è finita con la cessione di Repubblica, lo si deve anche al fatto che i suoi proprietari, nessuno escluso all’interno della famiglia De Benedetti, hanno trattato la preziosa testata senza troppo rispetto per la sua storia e per quanti ci lavorano e ci hanno lavorato contribuendo al suo successo. Gli ultimi editori, da un lato si sono affidati a Verdelli per raddrizzarne la rotta, ma allo stesso tempo hanno segato l’albero con le vele. 

articoli fotocopia su fca

A molti la Repubblica di Verdelli non piaceva, vuoi per i titoli, i toni, l’enfasi, perché sembrava “un Manifesto ante litteram”, “una Repubblica giacobina”. Altri ne erano entusiasti, perché rassicurante sul lato left, gauche, non più giornale-partito, semmai giornale-movimento, da agitare magari nelle piazze. Buono come “organo delle Sardine”, ma che politicamente faceva fatica ad avere un ancoraggio forte, a collocarsi da qualche parte. Giornale-barca a vela, in balia delle correnti d’aria. Di opposizione ma anche no, perché mai davvero anti-Conte. Ma il Covid-19 consente fortunosamente al giornale di smarcarsi, di sospendere la politica. Soprattutto la politica politicante. E rimettere al centro il tema dell’identità, della sua cultura su temi universali come la vita, la morte, lo spirito del tempo, i diritti violati, l’essenza dell’essere e del suo contrario. 

Alla fine della storia, Verdelli è stato stritolato. E Repubblica non è entrata in una fondazione che la potesse tutelare da scalate o cessioni, protetta da uno statuto di autonomia e indipendenza come l’Economist. Quanto poi all’articolo sul prestito di Intesa Sanpaolo a Fca, “che fa da apripista a una nuova formula che aiuterà migliaia di imprese”, c’è chi lo rubrica a incidente di percorso. Nel senso che la Repubblica e La Stampa, stesso editore, hanno dato la notizia in egual modo con due articoli fotocopia. Repubblica piazzandolo a pagina 26, La Stampa alla 17. Il quotidiano romano ha aggiunto, con marcato senso di realismo, un commento in “prima”. Che non ha giovato.   

2 Commenti

  1. Analisi tanto triste quanto inesorabile. Che Repubblica abbia cambiato pelle e sostanza organica nel corso dei decenni era inevitabile. Poteva succedere: per tutelarne un minimo di autonomia occorreva tuttavia una redazione che lo volesse e non fosse invece intimorita dal clan che la governava. E che tuttora la governa, portandola lentamente a dissipare il suo cospicuo patrimonio professionale e culturale, col risultato di abbassarne la qualità e l’autorevolezza, e di distruggerne la memoria. Il lento declino e il calo delle vendite sono due fenomeni connessi e interdipendenti, causati sia dalla spietata concorrenza del web, sia da logiche editoriale “vecchie” e da scelte politiche discutibili. È ormai un giornale arlecchino, dove a qualche buon servizio si alternano pagine sciatte e scontate, ma sempre presuntuose. La Rete, ormai, stana queste contraddizioni e le esalta, contribuendo a deprimere il mondo del giornalismo, a svilirlo, a denigrarlo. Ciò delegittima il lavoro e la professionalità dei giornalisti, portando acqua al mulino di chi ne ha fastidio e paura. Col risultato di imbavagliarli. La crisi economica che devasta il settore non viene affrontata come si potrebbe (e dovrebbe) ma subìta. Meglio “guardiani” della democrazia e della libertà di informazione ricattabili ed ostaggi degli editori che non critici attenti e impavidi. Ecco, in questo contesto disperante si inserisce la parabola malinconica di Repubblica, e della fierezza che a lungo ha rappresentato: quella di illudersi che avrebbe contribuito a cambiare la società di un Paese diviso e purtroppo sovente incivile.

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